Prose (Foscolo)/I - Scritti vari dal 1796 al 1798/VIII. Istruzioni politico-morali
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VIII
ISTRUZIONI POLITICO - MORALI
[settembre-ottobre 1798]
CAPITOLO PRIMO
dell’indipendenza nazionale
Un conquistatore non si vorrá provar che di rado con un popolo libero povero e costumato. Le sue vittorie sarebbero funeste del pari che le sconfitte, poiché, sacrificando una parte delle sue forze, non ne ritrarrebbe alcun vantaggio reale. Un popolo libero è molto amico della propria patria per non opporsi a chi volesse strascinarla alla schiavitú; e se questo popolo stesso è povero e costumato, non alletta l’avarizia e l’ambizione del conquistatore, e si fa rispettare, o temer per lo meno, per la propria virtú. Queste ragioni mantennero a Sparta il primato su tutta la Grecia, il rispetto di tutte le nazioni potenti e l’indipendenza nazionale per piú di otto secoli. Atene per lo contrario deve le sue tante vicende, i suoi tiranni, i suoi demagoghi, le sue anarchie, la sua totale schiavitú alle proprie ricchezze ed ai propri vizi. Lo stesso si può dire dell’Italia.
Convengo che l’indipendenza nazionale può alle volte consistere nell’essere esenti da un giogo straniero, governandosi colle proprie leggi e co’ propri costumi ed affidando la somma delle cose a’ propri concittadini. Sotto questo aspetto si poteva chiamare «indipendente» la nazione romana sotto il governo dei re, e «indipendenti» i veneti sotto quello de’ nobili. Ma, siccome i primi, che non erano assoluti monarchi, incominciarono a usurpare i diritti del popolo, trasmettendo non per l’elezione generale, ma per ereditá la possanza; e i secondi, non eletti, ma usurpatori, chiusero il numero de’ nobili e si fecero signori dello Stato, uccidendo ducentocinquantasei del popolo, che con valore contrastarono a costoro la signoria; cosí ne viene che la nazione non è indipendente dove i governatori non sono legittimi, i quali, violando la santitá delle costituzioni o delle leggi saliche, divengono tiranni e nemici de’ propri concittadini. Aggiungi che, dove il popolo non è libero, la nazione non è indipendente, perché, potendo essere venduto o perduto, per l’ignoranza, per l’interesse o per la ferocia dei suoi governanti, senza ch’egli abbia parte nella colpa, ma nell’infamia e nel danno; cosí egli è sempre nel pericolo di schiavitú, né può vantare un’indipendenza che non può al caso mantenere e difendere per se stesso.
E’ pare con ciò dimostrato che l’indipendenza nazionale è inutile nome, ove per base e per difesa non abbia la sovranitá popolare. Bisogna dunque che questa stessa sovranitá non sia appoggiata al diritto, ma al fatto. Tutti i popoli per diritto furono liberi; ma quasi tutti in fatto divennero schiavi. Qualunque sovranitá sta nel diritto, ma è mantenuta dalla forza. Pronto, dunque, formidabile, armato dev’essere sempre quel popolo che aborre la schiavitú. Se con un braccio posa le armi, offre il piè alle catene. La Francia divenne libera con la spada, e si mantenne libera con la guerra. Sparta, Atene, Roma, l’antica Venezia, l’Elvezia, l’America ci fanno fede di questa veritá; e queste istesse repubbliche ci serviranno d’esempio per dimostrare che, quando il popolo lasciò l’armi e non si difese da se medesimo, divenne vile, vizioso, povero e schiavo.
Tutti i cittadini sono soldati, e tutti i soldati son cittadini, quando ritornano dopo la guerra alla patria. Non v’ha cosa piú nociva alla libertá che il soldato per professione. Avvezzo alle rapine, al sangue, alle ferocitá della guerra, pone tutti i suoi diritti sulla punta della spada, e poco a poco opprime quel popolo ch’egli doveva difendere. Saggia sará quella costituzione che, anziché fomentare le principali passioni degli uomini, le modera e le dirige all’utilitá. Primo, innato, feroce è il desiderio di comandare; e chi ha l’armi e la forza dalla sua parte, ha i mezzi di saziare la propria ambizione. Ottimamente nella romana repubblica il console era il capitano dell’armata, e, cessata la guerra della quale era stato incaricato, se ne tornava a deporre il comando delle armi ed a ritornare o agli affari della repubblica o a suoi domestici lari. Lo stesso era degli altri tutti che avevano sotto di lui militato. Per aver cessato, a’ tempi di Silla e di Mario, da questa santissima costumanza, i cittadini romani furono assoldati dai piú ricchi, e alle guerre civili successe la tirannide dei triumviri e degli imperatori. Ma di questo parleremo piú innanzi, quando si tratterá delle ricchezze.
Frattanto conviene por mente che il soldato per professione, se è della tua nazione, ti reca in casa la discordia, le contese ed i vizi, quando è in ozio; e, quando guerreggia, leva ai cittadini la consuetudine e il valor militare, impoverisce l’erario, e dá sempre in mano ai governanti i mezzi di divenire tiranni. Se invece non è della tua nazione, ma mercenario, bada che chi ti difende per dieci, ti vende per quindici; bada che, in caso d’una vittoria, s’insuperbisce e ti chiede, minacciandoti, in compenso piú di ciò che ti ha guadagnato; bada che, in caso di sconfitta, ti abbandona dopo d’aver messo a sacco li tuoi focolari. Molti e terribili esempi ne somministra di ciò la storia dei popoli antichi.
Prima base dunque dell’indipendenza essendo la sovranitá popolare, conviene che questa sia forte per sé, e per se medesima si difenda, per le ragioni allegate.
CAPITOLO SECONDO
I
Corre per le bocche di tutti la massima de’ moderni politici: che un popolo povero possa difficilmente far argine alle forze de’ nemici, mancandogli i mezzi di procacciarsi difesa. Quanto sia da valutarsi questa sentenza, non so. Certo che un popolo povero, come abbiamo osservato di sopra, non alletta l’avarizia d’un conquistatore. Se nondimeno, per far fronte alle invasioni nemiche, fa di mestieri piú oro che braccia, credo che la ricchezza del popolo, considerata per individui, sia ugualmente dannosa, o inutile per lo meno, e che, in questo caso, debba reputarsi la ricchezza del pubblico piú che quella degli individui. Ma di questo piú sotto. Appoggiano i saggi moderni i loro principi alla caduta del regno di Francia e della repubblica di Venezia: senza avvedersi che, quando i francesi hanno atterrito tutti i re coalizzati, non erano niente piú ricchi di prima, anzi estenuati assai piú, e che appunto la Rivoluzione ebbe origine dalla povertá dell’erario e dalle ricchezze degli individui; e che la repubblica di Venezia cadde perché, deviando dal suo antico costume che l’ha resa, di piccola, grande, ricca e temuta, cercò di aver parte nelle guerre (giacché, attesa la sua situazione, non poteva esentarsi) piú col denaro che con le armi, di modo che, sprovvista tutto ad un tratto, cadde infingardamente, appunto perché confidò piú sull’altrui avarizia che sul proprio valore. Adunque sembra che l’indipendenza nazionale non consista nelle ricchezze de’ cittadini, ma nella finanza generale e nella pubblica forza. Dirò di piú: la ricchezza de’ cittadini è affatto contraria alla libertá, e quindi all’indipendenza.
Senza parlar di Licurgo e della legislazione spartana, della quale farem motto in altre occasioni, io mi contenterò di gettar un’occhiata sugli ultimi ateniesi, quando i potenti con alcune piccole larghezze, fatte per la maggior parte a spese del pubblico, si comperavano i voti del popolo, e, ritenendo per sé tutte le cariche d’autoritá e di profitto, addossarono tutti i pesi ai cittadini piú moderati e piú deboli. Intanto un’altra classe d’uomini, minacciando delazioni e giudizi, traeva denaro da quello e da questo; e, in caso di qualche pubblica disgrazia, i potenti, che ne avevano la colpa, pagavano de’ falsi accusatori, i quali sceglievano fra i meno colpevoli le vittime che si dovevano sacrificare al furor del popolo tradito da’ suoi governanti. S’aggiungano le divisioni fra le repubbliche greche, i vizi degli ateniesi, le adulazioni degli avari oratori, chiamati dal comico Aristofane «adorapopolo»; e si vedrá a chiare note che, dove stati non vi fossero i ricchi, principio e alimento di tutti questi disordini, Atene non sarebbe caduta, con tanta ignominia, dal colmo della sua grandezza.
Quando le ricchezze introdussero il lusso in Atene, e il desiderio di primeggiare non poteva essere saziato che con i mezzi dell’oro, gli oratori venduti a Serse e a Filippo accelerarono la rovina della loro patria. Allora non si trovava piú in Atene alcun vestigio di quella politica maschia e vigorosa, che sa ugualmente preparare i buoni successi e riparare i sinistri. Non vi restava che un orgoglio mal inteso e soggetto a svaporarsi in vani decreti; di modo che il comico Aristofane dice che gli ateniesi, divenuti ricchi, non avevano «piú nulla di guerriero fuorché la lingua». Questi non erano piú quegli ateniesi, che, minacciati da un diluvio di barbari, avevano demolite le loro case per fabbricarsi una flotta, e le di cui donne lapidarono Cicida, l’oratore che propose di rappacificarsi con la Persia per mezzo di un tributo o d’un omaggio. L’amor del riposo e del piacere, introdotto dalle opulenze, aveva pressoché spento quel della gloria e della indipendenza.
II
Pericle, quel grand’uomo cosí dispotico, che da’ suoi emuli era chiamato il «secondo Pisistrato», fu il primo promotore della mollezza e della corruzione. Ad oggetto di conciliarsi l’affetto del popolo, egli stabili che i giorni in cui dovevano celebrarsi i giuochi e i sacrifici si dovesse distribuire al popolo un certo numero di oboli, e che nelle ragunanze ove si agitavano le materie di Stato si pagasse a ogni cittadino una certa retribuzione per diritto di presenza. Cosí vidersi per la prima volta uomini repubblicani vendere alla repubblica la cura che si prendevano di governarla, e contar fra le opere servili le piú nobili funzioni della possanza sovrana. Non era difficile a prevedersi ciò che doveva produrre un sí terribil disordine. Si pretese di rimediarvi col destinare un fondo per uso di guerra, con proibizione, sotto pena di morte, di proporre di porvi mano sotto qualunque pretesto. L’abuso si mantenne sempre. Accumulandosi le somme ricchezze in mano di pochi, il povero cittadino, che formava la piú parte del popolo, non avrebbe lasciato i suoi lavori, comperati al fasto e alla corruzione de’ ricchi, onde governan la repubblica; quindi il sommo potere si devolveva ai pochi ricchissimi, se la legge non avesse tentato un qualche riparo, pagando i cittadini che intervenivano all’assemblee: pagando, vale a dire, tutto il popolo. Ma questa usanza, che rodeva secretamente le basi dello Stato, parve tollerabile finché il cittadino che viveva delle pubbliche liberalitá procurava di meritarle con un servigio assiduo di nove mesi all’armata. Ciascheduno serviva a vicenda, e chi si dispensava da un tal dovere era punito come disertore. Ma finalmente il numero de’ contravegnenti oppresse la legge, e l’impunitá, secondo il solito, non mancò di moltiplicare i colpevoli. Questi uomini, avvezzi al soggiorno delizioso d’una cittá ove le feste e i giuochi, introdotti dalle ricchezze, erano perpetui, concepirono un abbonimento insuperabile per la fatica, che risguardarono come indegna di persone libere. Convenne dunque trovar di che trattenere questo popolo sfaccendato e di che riempire il vuoto d’una vita disoccupata. Ciò fu specialmente che accese in cor la passione, o piuttosto il furore degli spettacoli. Epaminonda, il quale aveva col suo genio alzata Tebe, sua patria, a contrastare il primato della Grecia a Sparta e ad Atene, teneva con questa rivalitá risvegliata l’emulazione di questo popolo.
Ma la morte d’Epaminonda li fece cadere in una indolenza e in una mollezza letargica. I fondi degli armamenti di terra e di mare si consumano tantosto in giuochi ed in feste. La paga del marinaro e del soldato si distribuisce al cittadino ozioso; la vita agiata e voluttuosa ammollisce i cuori; il valore e la scienza militare non sono piú contate per nulla; non si applaude piú ai grandi capitani, ma si onorano i piú ricchi; non vi sono piú acclamazioni che per gl’istrioni. La commedia e la tragedia, che devono la loro origine a due abitanti d’Icaria, la prima a Susarione, la seconda a Tespi, erano nate in Grecia, e quel popolo le riguardava come frutti del suo terreno, di cui non poteva saziarsi. Quest’aviditá in Atene era spinta all’ultimo eccesso. I poeti correvano da ogni parte per soddisfarla. Essi trovavano ben tosto lo spaccio della loro mercanzia, e, per attestato di Platone, non avevano strada né piú breve né piú certa per arricchire. Non si contennero essi a’ termini d’uno scherzo innocente; ma la loro licenza giunse (come abbiam osservato nell’articolo terzo della prefazione a questo giornale1) perfino a far soggetto delle loro rappresentazioni i pubblici magistrati, senza nemmeno celarne i nomi. 1Il merito e la dignitá non erano al sicuro de’ loro colpi. Pericle, quell’uomo cosí venerabile e riverito, fu lo scopo dei tratti di Cratino, d’Eupoli e di Teleclide. La condanna di Socrate può chiamarsi il delitto capitale della poesia comica e della scioperataggine degli ateniesi, che condannavano la virtú. Aristofane colla sua mordacitá fece dichiarar empio quell’uomo, che tutti i secoli hanno dichiarato sapiente e le di cui virtú tentarono Erasmo ad aggiungerlo alle litanie cristiane.
Il credito di questi poeti, venduti al raggiro de’ potenti, non pregiudicava meno al pubblico che al particolare.
Essi facevano la principal figura nelle deliberazioni politiche, e il talento, che avevano di dilettare il popolo, dava loro autoritá di tradirlo e di venderlo. Aristodemo e Nectolemo, poeti, sotto questo aspetto servirono utilmente Filippo, che accelerò la ruina di tutta la Grecia. I loro pareri piacevano come i lor drammi. Non è difficile l’immaginarsi qual folla di spettatori concorresse alle rappresentazioni. Non si ebbe difficoltá a destinar per fondo alle spese teatrali il denaro giá destinato alla guerra. Piú s’impoveriva l’erario, piú lo Stato aveva bisogno di ricchi; e piú i ricchi padroneggiavano, per conseguenza, lo Stato. Eubulo, uno dei capi principali di questa fazione, propose il decreto: che, sotto pena di morte, niuno potesse rivolgere ad altro uso il danaro che doveva servire ai spettacoli. Il popolo gradi la proposizione, e, a guisa d’un frenetico che non ha né conoscenza né forza se non per assalire il suo medico, decreta la morte al primo che osasse proporre di restituir questi fondi alle necessitá dello Stato, a cui pure erano stati consacrati in addietro sotto la medesima pena.
III
Tali furono gli effetti delle somme ricchezze nella repubblica d’Atene: dopo l’epoca che noi abbiamo accennata, i greci rimasero senza libertá, perché abbandonarono la virtú e, divenendo schiavi delle passioni prodotte dall’oro, scesero ad essere i tributari ed i sudditi di que’ re che avevano poc’anzi atterrito.
Ora, deviando da quanto dissero gli osservatori sulla decadenza della romana libertá, piacemi di trarne le fonti appunto dalla sterminata ricchezza di alcuni pochi. Si va comunemente dicendo che i due Gracchi furono l’origine prima degli scandali civili che strascinarono Roma alla schiavitú: io dirò invece che non i Gracchi, ma le persecuzioni del senato e la morte di Tiberio e di Caio Gracco furono le prime scosse del crollo di si grande repubblica. Convien risalire a piú alti principi.
È da sapersi che Roma, al suo nascere, essendo povera e abitata da fuorusciti di diverse nazioni, e per conseguenza da gente inquieta, discorde, facinorosa, Romolo, secondando il suo genio guerriero e provvedendo alla necessitá del suo piccolo Stato, divisò di guerreggiare co’ sabini e con gli altri popoli circonvicini, da’ quali riportò molte vittorie, e li astrinse a far matrimoni co’ romani, e stringer con essi alleanze ed a cedere ai bisogni di questi una parte del loro territorio. Per la legislazione civile e religiosa di Numa, e per le guerre di Tulio Ostilio e degli altri re, Roma cresceva ognora piú, quasi in preludio della sua futura grandezza. Cacciati dal primo Bruto i Tarquini, successe alla tirannide dei re quella dei patrizi, la quale era fondata su le loro maggiori ricchezze. Propose Licinio la legge agraria, e fu adottata. Ed è questa:
Primo. Che niun cittadino romano possa possedere piú d’una data porzione di terreno.
Secondo. Che tutte le terre conquistate dopo questa legge sieno ripartite equamente a tutti i cittadini.
Era questa legge eseguibile per l’articolo primo, perché non si trattava di spogliare i patrizi o di diminuir loro la rendita, mentre, in que’ tempi della repubblica ancora povera, i piú (poiché quei della famiglia reale, ch’erano i piú ricchi, furono espulsi) appena possedevano molto meno del maximum fissato dalla legge Licinia; ma, prevedendo che le guerre avrebbero arricchito i nobili, questa legge stessa aveva definito che non giungessero col tempo le ricchezze a tal grado che il popolo fosse lo schiavo degli ottimati. Ed era molto piú eseguibile e giusto il secondo articolo di questa legge, che ordinava la distribuzione delle terre conquistate ai nemici, perché toglieva l’adito ai patrizi di divenire ricchissimi o di soperchiare gli altri colle ricchezze: mentre non avrebbero avuto di piú che quelle rendite che giá possedevano nel tempo che fu adottata la legge Licinia, e per conseguenza poco piú degli altri (essendo allora, come si disse, la repubblica povera); e quindi mancherebbero i mezzi di comperare il popolo e i suoi voti, avendo ognuno il necessario per i bisogni della vita, mentre possedeva ciò che gli era toccato dalla ripartizione delle conquiste; e così si toglieva di mezzo la ricchezza e la povertá, tutte e due insanabili e mortifere infermitá delle repubbliche. E giusta anche era tal legge, poiché, combattendo il popolo, e non i soldati del re o i mercenari degli aristocrati, avesse diritto anch’egli su le conquiste e ritraesse il vantaggio delle sue fatiche e delle sue guerre.
Ma la faccenda non andò cosí. Perocché, essendo fatta la legge in tempi che i poveri, immersi ne’ debiti, erano creature e clienti del ricco, avvenne che i patrizi, prevedendo come sarebbero caduti della loro possanza, si prevalsero delle leggi contro i debitori, che terribili erano ed inumane, e comperarono dai cittadini le terre ripartite, e questi le vendettero per isgravarsi dai debiti e per non incorrere nelle pene e nella schiavitú (avvegnaché chi per impossanza non poteva pagare il debito diveniva schiavo del creditore). Aggiungi che, essendo governati, in que’ primi tempi della repubblica, tutti gli affari dalla classe patrizia, le terre conquistate non furono distribuite equamente, e il senato s’appropriò per gl’individui del suo corpo ciò che si spettava alla universalitá. E qui giova ripetere e meditare la massima politica esposta nel foglio antecedente: «che il numero de’ contravegnenti opprime la legge, e che l’impunitá moltiplica le colpe e i colpevoli».
Cosí successe in Roma. Il popolo povero guerreggiava al di fuori, e i ricchi s’appropriavano e la gloria e l’utilitá delle sue vittorie.
Crebbero le ricchezze e la tirannide, per conseguenza. Il popolo si avvide e reclamò i suoi diritti. Il senato ora cesse, ora vinse, secondo che le circostanze gli suggerivano di cedere o di resistere. Unico partito era di riaccendere le guerre e di espellere con questo motivo dalla cittá i cittadini che potevano opprimere la prepotenza senatoria. Le ricchezze frattanto accrescevano, e il patriziato preponderava. Nulla in ciò valsero i tribuni della plebe, sebben molto abbiano giovato per sostenere la libertá, che sarebbe caduta molto prima di Cesare: l’oro, al solito, superava tutte le leggi, s’introduceva la corruzione: senonché il valor militare, un avanzo di antica virtú e le ragioni del popolo, che tratto tratto egli sostenea con i voti e con la forza, mantennero la repubblica. A questi tempi appartengono i Gracchi, che formano il soggetto di tutto questo paragrafo e de’ quali parleremo nel foglio seguente.
IV
E’ pare che al solo nome di «legge agraria» si voglia accusare e condannar come demagoghi tutti coloro che, perorando o scrivendo, non s’uniscono all’universalitá de’ politici ed osano favorire tal legge. Ma, parlando dei vantaggi delle antiche istituzioni, non è giá mente degli scrittori d’introdurle nelle moderne repubbliche; tanto piú che ciò, che s’addice a chi scrive, non è sempre conveniente a chi è chiamato a far leggi. Dico dunque che utile e bella per sé è la legge agraria, la quale mantenne la repubblica di Lacedemone costumata e potente; ma che ottima e necessaria era tal legge, massime come fu da Licinio proposta, alla romana repubblica, senza la quale, lacerata prima dalle guerre civili, divenne poscia serva del piú intraprendente.
Tiberio Gracco, vedendo come la patria era in mano del senato, composto dai patrizi, che, oltre ch’essi erano innati nemici del popolo, erano anche i piú ricchi ed avevano i mezzi di opprimerlo, divisò di richiamare ab antiquo la legge agraria e di eguagliare, per quanto si potesse, le fortune de’ cittadini, reputando quel saggio romano che l’eguaglianza di diritto senza l’eguaglianza di fatto non è che nome. Era egli tribuno della plebe, di nobil casato, ricco, costumato, valoroso, eloquente; né la repubblica era ancora cosí corrotta che un uomo di simil tempra non acquistasse credenza, massime dalla parte del popolo, di cui Tiberio Gracco volle trattare la causa anche a danno del suo privato interesse. Lungo sarebbe il dire, e inutile forse, tutti gli sforzi del tribuno contro il senato, il quale, or con l’intrigo,
or con la forza e finalmente con l’assassinio, atterrò tutte le mire di Gracco. Questo fu il primo omicidio di tumulto civile successo dopo la fondazione della repubblica; e Tiberio, ad onta che la sua persona fosse sacrosanta, perché era egli allora tribuno della plebe, fu dal popolo concitato, o piuttosto dai sicari del senato, ucciso e gettato nel Tevere.
Caio Gracco, fratello di Tiberio, minore di nov’anni, conoscendo che l’interesse piú che la santitá della legge animava i due partiti, definí di allontanarsi dagli affari della repubblica. Dopo l’anno decimo dell’uccisione di Tiberio, vedendo in sogno, come narrano Cicerone e Plutarco, lo spettro di suo fratello che lo animava a divenire propagatore della legge agraria e di consacrare il suo sangue al bene del popolo, ei si svelse dal suo proposto; e, creato anch’egli tribuno della plebe, atterrí piú volte il senato, che alla libera e veemente eloquenza del secondo Gracco oppose il raggiro: fino a che questi, assalito un giorno dagli sgherri di Postumio consolo, ha dovuto soffrire la sorte di suo fratello.
Dalle morti de’ Gracchi e dai tumulti in questa occasione avvenuti traggono i politici la maggiore ragione della caduta della repubblica romana, poiché, a dir loro, per la prima volta si videro due tribuni del popolo uccisi nel fòro e insepolti; lo che accese l’odio giá antico fra la plebe e il senato, e fece di mano in mano insorgere le guerre civili e il servaggio. Non negherò che questi tumulti non siano stati di scandalo e non abbiano avuto parte nelle guerre civili; ma dirò altresí che, essendo questi tumulti avvenuti per iscemare la possanza de’ nobili e de’ ricchi, ed avendo questi soperchiata la fazione popolare coll’ingiusto assassinio de’ Gracchi, il giudice imparziale piange sulla sorte di questi due generosi romani, e, allontanandosi dal volgo, che giudica non dallo scopo, ma dall’evento, tragge appunto la ruina di Roma piú dalle opposizioni del senato (interessato a ciò per cause private) che dalle intraprese de’ Gracchi, audaci in vero, ma giuste e propugnatrici d’una santa causa e delle leggi de’ loro maggiori. Ma la questione non s’appoggia a questo punto di storia.
V
Esaminiamo il lusso, i vizi, le guerre, le profusioni di Crasso, di Siila, di Lucullo e di Cesare e degli altri ottimati: e vedremo che senza sterminate ricchezze non avrebbero assoldati, come fecero, i cittadini romani, né accese le proscrizioni e le guerre per private ambizioni; né i capitani divenuti re, né i soldati di Roma convertiti in soldati e vassalli or d’uno or d’un altro privato; né Silla e Cesare si sarebbero eretti giammai dittatori perpetui, se, sostenuti dalle loro ricchezze, non avessero fatto de’ cittadini romani altrettanti sgherri; né si sarebbero comprati i voti de’ cittadini poveri, che, necessitati di vendersi al piú ricco, divenivano satelliti del piú potente; né si avrebbe con questi voti atterrito il senato, il quale favorí prima i piú ricchi per stabilire l’aristocrazia, ma dappoi si vide anch’egli oppresso col popolo, e cadde ne’ suoi stessi inganni; né se... e quanti «né» si potrebbero infilzare? Dove in questi tempi le antiche virtú, dove la santitá delle leggi, dove i magistrati, dove le armate, dove i stessi sacerdoti? Tutto in mano de’ ricchi, che o corrompevano o atterrivano o compravano. Ecco la sorgente vera della caduta di Roma e di tutte le repubbliche antiche e future. Si mediti l’uomo, le sue passioni, gli umori del popolo; e poi gli si lascino in democrazia i mezzi di dominare, o, per la sua povertá, il bisogno di essere dominato. Noi siam nati prima uomini e poi cittadini; i bisogni di natura, che sono altrettanti doveri reali, siano in noi piú potenti dei doveri di servitú.
Meditando sulla romana repubblica, sull’origine della legge agraria e su la fine de’ Gracchi, agevolmente si riconosce essere stata simile istituzione utilissima e necessaria. Ben mi sento intuonare la vecchia sentenza: doversi badare piú al giusto che all’utile, e conservarsi illese le proprietá, come quelle che sono il primo diritto del cittadino. Piano! Talvolta passano di bocca in bocca alcune opinioni che, per l’interesse di chi le promulga e di chi le riceve, diventano assiomi e principi sacrosanti; e tale, a mio parere, si è questa. Dico che la legge agraria, in qualunque modo, diretto o indiretto, si voglia eseguire, oltreché ella è utilissima e necessaria, ella altresí è lecita e dovuta. Si suppone che il diritto di proprietá sia anteriore alla societá. Ciò è falso, ove si consideri l’uomo, il quale nello stato di natura si crede di sua proprietá ciò che avanza e gode, e, non occupandolo, lo lascia per conseguenza al primo occupante e godente: e quindi è suo il poco ch’egli mangia per suo nutrimento, è suo il suolo ov’egli posa il piede; ma non per questo ne viene che non sia del suo simile il pomaio soprabbondante e troppo ai bisogni di un solo, e che un altro non possa mettere i piedi sul suolo calcato prima da lui, e che due non possano dormire sotto un albero stesso, caso che le frondi possano coprire piú d’uno. Ecco lo stato vero di proprietá nella natura. Tanto piú che gli uomini allora usando della forza, ed avendo la natura, poco piú poco meno, compartite eguali forze ne’ suoi figli, non v’ha pericolo che venti o trenta siano soperchiati da un solo e che per sua prepotenza e voracitá non abbiano di che sussistere, come accade nelle istituzioni e classi della societá, ove uno solo assorbe l’alimento di un migliaio di cittadini, i quali sono astretti a vendersi a questo solo per vivere. Ora, passando gli uomini dallo stato di natura a quello di societá, fanno fra di loro una serie di patti chiamati il «contratto sociale», ove si garantiscono, l’uno per l’altro, la libertá, la sicurezza, la proprietá. E si garantiscono tutti la proprietá per garantirsi la vita, senza la quale non v’ha né libertá né sicurezza. Né l’uomo, uscendo dallo stato di natura, si porta con sé campi, case, armenti, ecc. La societá in séguito glieli assegna, ed ecco la prima proprietá. Ora una societá, quando si stabilisse un governo, caso che primo articolo della sua costituzione sia la libertá e l’indipendenza, e abbia divisato di tôrre tutti gli ostacoli al suo fine e tutti i mezzi di essere oppressa, deve anche tôrre la somma povertá e la somma ricchezza, perché la prima è cagione di avvilimento e di schiavitú, l’altra di baldanza e di tirannia. Né mi si dica che la proprietá è un diritto primitivo. La proprietá è un diritto civile, perché si appartiene agl’individui; la libertá è un diritto pubblico, perché s’appartiene all’universalitá della nazione: quindi, quando la proprietá è sí sterminata che opprime la libertá, le leggi devono fare che necessariamente e santamente si infranga il diritto civile per il diritto pubblico, vale a dire che il bene comune sia anteposto al bene degli individui.
Quando dunque [in] una societá, il di cui diritto pubblico è per consenso e patto e giuramento generale quello della libertá della patria, non si devono togliere di mezzo l’indigenza, che astringe al servaggio e alla miseria, foriera sempre del delitto, una parte de’ cittadini, e non si devono distribuir piú equamente le ricchezze, le quali, accumulate in poche mani, aguzzano l’orgoglio, crescono la libidine di dominare, le prestano i mezzi, corrompono la virtú, comprano i voti, vanno al disopra delle leggi ed alzano sulla ruina della repubblica il trono degli oligarchi o dei re? Qual è questo diritto cosí sacrosanto di pochi, che possa anteporsi al diritto sacrosanto dei piú? Qual n’è la sorgente? Il diritto di proprietá in fatto non ha per origine che la provvidenza della natura, che autorizza ognuno a prevalersi de’ suoi doni, e non ha per vero motivo che la sussistenza dell’uomo: e gli altri tutti sono secondari e tendenti a perpetuar l’interesse. Ma anzi per questa ragione si deve rendere piú giusto questo diritto, non lasciando un picciol numero di possidenti nuotanti nella opulenza, di cui la finanza assorbe, con le ragioni sociali, le ragioni naturali dei piú, che ci restano avviliti e affamati. Non si vede ogni giorno giganteggiar l’opulenza, appunto opposta a chi grida: — Pane! —
Che se per la salute pubblica si sacrifica di buon grado ne’ cangiamenti di governo quella parte di persone che, non componendo la pluralitá, porta contrarie opinioni a quelle dello Stato, e se si traggono giustamente sotto la scure tutti coloro che tramano rivoluzioni o controrivoluzioni; perché non si dovrá manommettere le ricchezze, quando queste visibilmente attentano alla salute pubblica e possono rovesciare, anzi (conoscendo la natura dell’uomo, intenta sempre al dominio) vogliono rovesciare ed opprimere la sovranitá popolare? La vita non è forse un diritto degl’individui, o è diritto secondario e minore di quello della proprietá? Perché si espongono nelle guerre i piú robusti e giovani cittadini, e non si dovrá manommettere le somme ricchezze per mantenere l’indipendenza medesima, che è assalita da mezzi piú validi che non son quelli delle armi nemiche? Stringo e dico: non esservi indipendenza ragionevole ove non v’è sovranitá popolare, e non esservi sovranitá popolare ove vi sono somme e sterminate ricchezze, e quindi corruzione di costumi, indigenza e oppressione.
CAPITOLO TERZO
I
Nicolò Macchiavelli, meditando sulla prima rivoluzione di Roma, quando passò dalla monarchia alla libertá e al consolato, paragona i tempi de’ due Bruti, osservando che il primo Bruto fondò la repubblica malgrado i sforzi dei re, perché il popolo romano era costumato, ma che il secondo Bruto, ad onta ch’egli abbia spento il tiranno, non potè preservarla, poiché il popolo era divenuto vizioso. Passa dunque dalla schiavitú alla libertá una nazione leale, coraggiosa e costumata; ma una nazione insolente, vile, viziosa, malgrado la sua costituzione, le sue leggi, il suo erario, i suoi trionfi, e malgrado i sforzi de’ pochi magnanimi (perché in un mare di vizi galleggia sempre qualche somma virtú), conviene che irreparabilmente ruini. Atene, Roma, Firenze, Venezia ne fanno dolorosissima fede. Esaminiamo noi stessi e le nostre istituzioni morali, e vedremo quanti passi siamo lontani dal precipizio.
Vedete voi quella repubblica, ove i cittadini s’ammolliscono nelle delizie o nell’ozio, ove i principali della nazione disprezzano il travaglio e l’economia, ove le arti non sono onorate, ov’è spenta la bonafede, ove si negligono le proprie manifatture, ove la fede pubblica manca ogni giorno, ove gl’individui cercano di sbramare la propria avarizia sui fondi della nazione, ove i scellerati mercanteggiano la legislazione e la monopolizzano a loro vantaggio, ove del pari il governo non limita le proprie spese, ma aggrava i cittadini di nuove imposte, ove s’introduce il lusso, e il lusso distrugge poco a poco il commercio attivo della nazione, mentre ne accresce insensibilmente il passivo. E, per scendere al particolare, il marito vende la moglie e l’onore, il giuoco assorbe le derrate delle famiglie, s’aumentano i scioperati e i colpevoli, perché trovano esca all’ozio e il premio al delitto, si sfrenano le passioni e la corruzione si diffonde, simile alle fiamme divoratrici:
Foecunda culpae saecula nuptias
primunt inquinavere, et genus et domos;
hoc fonte derivata clades
in patriam populumque fluxit2.
Quand’io mi trovava a Milano, ho veduto impallidire sul tavoliere il giuocatore che con una mano affidava l’oro alla combinazione d’una carta, mentre, palpitando col cuore di perdere le sue e le altrui sostanze, ruminava nella mente nuovi progetti di raggiro, di ruberie, per riparare l’imminente perdita e per trovar nuove fonti di saziare la insaziabile passione del giuoco. E il padre di famiglia avventura in una sera l’alimento de’ suoi figli, e il pubblico funzionario arrischia la sua integritá, e il giovane si getta nella strada di vivere scelerato per sempre. Il giuoco si va ognor diffondendo di piú; le autoritá costituite lo vietano, ed esse medesime, spogliandosi dell’uniforme che le distingue, non si vergognano di essere i primi infrattori del loro divieto.
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui né per disprezzo.
Ma questo tasto sará toccato piú fortemente altra volta.
Milano stessa, centrale della nuova repubblica democratica, nutre ne’ suoi quartieri almeno cinque o seimila meretrici, quattro quinti delle quali sono estere, ed un migliaio di ragazzotti, che nelle pubbliche piazze mercanteggiano se medesimi e le loro infami padrone.
Io non so se vero mezzo di far rispettare il governo sia di proclamare la virtú colle stampe e di calpestarla co’ fatti: vero è che, quantunque quelle infami venditrici di onestá sieno minacciate di prigione e d’esilio, esse primeggiano, corrompono e diffondono sulla parte piú florida della societá il veleno dell’infermitá e del vizio, di modo che sembrerebbe a Tacito, il quale, interpretando tutto sinistramente, rade volte s’inganna, che «i magistrati tengono mano alla violazione de’ loro decreti in questo proposito, dividendo o le lascivie o il guadagno di quelle ree femmine».
II
E perché non si vuol dai legislatori anatomizzare le facoltá morali dell’uomo, per renderlo meno infelice? In mezzo a tal cloaca di vizi che ammorbano la repubblica, non sarebbe poco se le fanciulle di povera condizione (che sempre formano quasi la maggioritá), noiate de’ loro lavori domestici e d’una vita affaticata e meschina, non abbandonano le loro famiglie per lanciarsi in grembo a un dissoluto, sperando di trovar nell’ozio e ne’ commodi del libertinaggio una esistenza piú luminosa ed agiata. E, rotto il freno per la prima volta, non è poco se questo contagio non si communica a tutte le altre di questo sesso, e se non nascano de’ figli, infami per costituto e corrotti per istituzione. Quindi di questa genia saranno composte le truppe della repubblica, e i scellerati saranno i difensori della patria. Io non mi innoltro in questo argomento, perché noioso sarebbe il particolareggiare le conseguenze de’ nostri costumi, come facile il conoscerle senza di me. «Plus ibi boni mores quam alibi bonae leges valent», e questa sentenza la odo ripetere appunto da chi dovrebbe farla osservare e da chi appunto è il primo a violarla. Ma taluno mi dice: — Tu non di’ cose nuove. — E che monta? Io dico però cose tali che non si vogliono negare per santissime veritá, ma che si freme nell’idea di conoscerle appunto perché non si vogliono praticare.
Apriamo la storia. L’areopago in Atene era il piú antico e il piú integro magistrato di quella repubblica. I suoi membri, prima di esservi ammessi, doveano sottostare a un esame solenne per conoscere se nelle cariche anteriormente occupate aveano servito il popolo con fedeltá, e se nella loro privata condotta avevano praticato tutti i doveri del padre, del marito, del figlio, dell’amico, del congiunto, ecc. Questo magistrato era istituito per giudicare i gravi delitti e per mantenere i costumi. Atene fu costumata e saggia, e per conseguenza potente e temuta, fino a che Pericle intraprese di indebolire un’autoritá che equiponderava la sua. Sfortunatamente vi riuscí; e quel momento, in cui cessarono questi censori dello Stato e degli individui, segnò l’epoca della decadenza e della ruina d’Atene.
L’areopago s’intrometteva quando il popolo ne’ suoi giudizi e nelle sue elezioni era corrotto o ingannato; e il popolo soffriva di buon grado che l’autoritá di questo corpo, giudice degli immorali, usurpasse in qualche maniera i diritti sovrani per rinforzarli vieppiú. Io rammenterò due tratti di storia spettanti a questo argomento, che si legge presso Demostene (Aringa per la corona). Un cittadino, esiliato d’Atene, osò ricomparirvi. Fu tratto d’innanzi al popolo, che l’assolse a persuasione d’un accreditato oratore. L’areopago, informato dell’affare, chiamò a sé il colpevole, ne fe’ il processo, lo presentò al popolo, e lo fece condannare nuovamente. Un’altra volta, dovendosi mandare i deputati all’assemblea degli anfizioni, fra gli eletti si trovò Eschine, l’oratore di cui la condotta non era la piú illibata. L’areopago, presso di cui i talenti senza probitá erano reputati dannosi, informandosi dei costumi d’Eschine, pronunciò che l’oratore Iperide gli sembrava piú degno di quella onorevole commissione. Ed il popolo nominò Iperide. Se cosí fosse fra noi, un ministro, nominato recentemente per risiedere in estera corte rappresentante della nazione, certo che sarebbe stato all’istante dimesso, senz’altro motivo che quello della sua vita passata.
Ne’ seguenti numeri seguiteremo a parlare dell’areopago, delle istituzioni morali di Licurgo e della censura di Roma.
III
Quantunque sia stato l’areopago spogliato di tutte le sue funzioni risguardanti i costumi dalle fazioni popolari, condotte, come si disse, da Pericle, egli non aveva perduto né la sua reputazione né la sua integritá. Eccone un esempio tratto da Eschine oratore, nell’Aringa intorno a Timarco.
S’era raunata l’assemblea generale per decidere sopra un progetto di un cittadino per nome Timarco, che poco tempo dopo fu proscritto pe’ suoi corrotti costumi. Antiloco areopagita usò della parola in nome del suo corpo. Questo senatore, educato nella semplicitá degli antichi costumi, ignorava l’indegno uso, che tuttodí si faceva nella conversazione, de’ termini piú usitati: gli sfuggí un’espressione che, stornata dal suo vero senso, poteva alludere alla vita dissoluta di Timarco. Gli assistenti applaudirono, e Antiloco prese un piú severo contegno. Dopo qualche silenzio si volle continuare; ma il popolo, appiccando alle piú innocenti parole un’interpretazione maligna, non cessò di interromperlo con un tumulto di applausi e di rise smodati. Allora un cittadino, alzatosi, disse: — Non arrossite, ateniesi, di sfrenarvi a simili eccessi al cospetto degli areopaghi? — Il popolo rispose ch’ei conosceva le convenienze dovute alla maestá di quel magistrato, ma vi erano delle circostanze nelle quali il rispetto non poteva contenersi ne’ limiti. Quanta virtú non ci voleva onde stabilire e confermare una sí alta opinione negli animi di un popolo corrotto come quello d’Atene! Ci si permetta un’osservazione sulle autoritá costituite della nostra repubblica. Sono elleno le persone le piú dabbene? potrebbero sottostare a un esame rigoroso, pari a quello degli areopaghi? Credo che no. Ed io non pretendo accusare le autoritá costituite attuali.
I loro costumi sono gli avanzi della tirannide, che ci corrompeva e ci avviliva, per opprimerci con piú forza e con meno di resistenza dalla parte degli oppressi. Ma vorrei che le autoritá costituite si ponessero in capo una volta per sempre e se lo scrivessero nel loro cuore, che i figli, ad onta della buona educazione, crescono malvagi, quando gli esempi de’ lor genitori e de’ loro maestri non corrispondono alle lezioni, e che similmente il popolo sará sempre corrotto e infelice, perché o ubbidirá forzatamente, o disprezzerá quelle leggi emanate da uomini pessimi fra le loro famiglie e ingiusti nella societá.
Frattanto conviene fissare l’epoca della caduta d’Atene alla decadenza dell’areopago, il quale, malgrado la sua virtú, non ebbe piú l’influenza nell’integritá de’ costumi del popolo; i quali, poco a poco cangiandosi, strascinarono gli ateniesi sotto la dominazione dei re che avevano una volta atterriti.