Prefazioni e polemiche/IX. Lettera scritta da Giuseppe Baretti a Luigi Siries a Firenze (1778)

IX. Lettera scritta da Giuseppe Baretti a Luigi Siries a Firenze (1778)

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IX. Lettera scritta da Giuseppe Baretti a Luigi Siries a Firenze (1778)
VIII. Discours sur Shakespeare et sur monsieur de Voltaire (1777) - Chapitre huitième X. The introduction io the «Carmen seculaire» (1779)

[p. 293 modifica]IX LETTERA SCRITTA DA GIUSEPPE BARETTI A Luigi Siries a Firenze (1778) [p. 295 modifica] Londra, 13 dicembre 1778.

Che voi non siate punto letterato, non occorre, signor Luigi Siries, vegniate a giurarmelo; né io vi fidai la mia traduzione de’ Discorsi sulla pittura perché vi credessi tale. Come avrei potuto ingannarmi di tanto, dopo d’aver lette le varie cose da voi scrittemi? Da quelle si scorge assai chiaramente che voi non avete studiata né tampoco la grammatica della vostra lingua; si scorge che non sapete né tampoco l’ortografia. Quella mia traduzione io ve la fidai sull’unico supposto v’aveste quella dose di probitá che gli uomini anche piú ignoranti possono avere, quando il vogliano; ve l’ho fidata sul supposto l’avreste fatta costi stampare tal quale ve la mandavo, secondo la vostra spontanea offerta al cavalier Reynolds e la vostra promessa a me medesimo. Conscio però del vostro non avere studiata mai alcuna cosa, di non sapere né anco mediocremente la lingua comune del paese vostro, non che quella degli uomini letterati, come poteste essere temerario a segno da metter mano in quella mia traduzione? come poteste avere la sfrontataggine di stivarmela tutta di solecismi, di volgarismi e di barbarismi? Sia vero, come mi dite nell’ultima vostra, che gli artisti fiorentini non l’avrebbono intesa perché troppo eloquente o, come voi dite con ampollosa sciocchezza, non l’avrebbono «dicifrata nel misterioso giro dell’eloquenza». E chi v’ha detto, signor Luigi, che per cavare degli artisti ignoranti dalla loro ignoranza, sia duopo scrivere alla vostra goffa maniera e avviluppare gl’insegnamenti [p. 296 modifica]

in un gergo bestialmente spropositato? e chi v’ha detto poi che la fatica di tradurre que’ discorsi doveva farsi unicamente per uso de’ vostri pochi ed ignoranti artisti? Dunque, perché gli artisti di Firenze sono nella vostra presuntuosa opinione un branco d’asini, il mio signor Luigi Siries, asino superlativissimo egli stesso, ha a rifare una cosa mia, anzi a disfarla, degradandone la lingua, corrompendone lo stile, storpiandone i pensieri e contaminandola tutta colle sue scimunitezze, onde riesca intelligibile a’ suoi orecchiuti confratelli? Voi però, signor Luigi, mi scriveste a’ sedici del passato giugno che, al vostro riceverla, l’avevate sottoposta al giudizio di quelli stessi artisti ai quali deste il titolo d’«illuminati», e ch’essi v’avevano, per dirla colla vostra barbara frase, «testificato il piacere che si desse alla luce». Come va questo, vita mia, che a’ sedici di giugno gli artisti fiorentini sono illuminati, e che a’ tre di novembre diventano ciechi in modo da non intendere né tampoco le cose scritte alla mia sempre semplicissima foggia? Come in cosi pochi mesi s’è fatta in essi una tanto deplorabile metamorfosi? Voi mi ringraziaste anco, a nome di cotesto signor senatore Federighi, del mio aver donato all’Italia un’opera si bella. Perché dunque renderla brutta in troppi luoghi con tante sciocchezze di vostra testa? Perché guastarle perfino il titolo con un errore di lingua, dopo che quel signore ve l’ebbe commendata e incaricatovi, per bontá sua, di rallegrarvene meco, ancorché non mi conosca punto? Per aggiunta d’impertinenza, anzi per porre il colmo alla vostra mala fede, voi le avete tolto il mio nome, «pensando che il merito di traduttore non sia da valutarsi per niente da un letterato che sa distinguersi colle sue proprie produzioni». Ma perché «pensare» che quella non fosse una «produzione», se ho pure ad usar anch’io di questo brutto vocabolo? Qualunque cosa vi «pensaste», perché non mi chiedere innanzi tratto s’io valutava quel «merito» o non lo valutava? E qual vantaggio v’immaginaste poi di procacciare alla mia traduzione, privandola del mio nome? Assai bene pare a me che il mio nome le convenisse, poiché sono segretario di quella stessa Accademia in cui l’originale s’è ito di mano in mano [p. 297 modifica]

recitando dal suo presidente, e poiché ho tradotto quell’originale sotto a’ suoi occhi medesimi. Perché, sciocca e maligna bestiuola, perché non lasciar correre accoppiati i nomi di due antichi amici, onde il mondo potesse ragionevolmente presumere che il traduttore non doveva essersi discostato punto dal senso dell’autore? Ma ditemi un poco, signor Luigi Siries: perché io non valuto soverchio una cosa, sará permesso ad ogni ladroncello di furarmela? Confessate il vero, ladroncello, confessatemelo! Voi mi furaste quel po’ di «merito», non mica sul supposto ch’io non lo «valutassi per niente», ma sibbene per attribuirvi a fraude l’opera mia, onde potervi spacciare nella cittá vostra per molto dappiú che non siete. Che questa sia stata l’ idea vostra ribalda, lo scorgo da un passo equivoco della vostra insulsa e vile prefazione, laddove dite furbescamente e con due frasacce stolte che «la traduzione è nata sul Tamigfi» e che «ha presa poi una nuova forma sull’Arno». Con coteste parole pseudopoetiche voi voleste far intendere ai vostri fiorentini che voi medesimo avevate tradotto i discorsi del cavalier Reynolds quando foste qui in Londra, e che li ripuliste quindi a vostro agio tornatovi a casa. Bravo, signor Luigi, e bravo il proposto Lastri, che per aiutare il vostro ladroneccio ha commentato furbescamente anch’esso quelle vostre anfibologiche parole, insinuando con dolcezza, al numero trentasei delle Novelle letterarie, che «l’editore del libro pare ancora il traduttore». Ghiottoni indegni tutt’a due! Di queste notizie arricchite il mondo letterario? di queste menzogne fate mercato? E come non si vergognò quel pretaccio pincone d’entrare in lega con un Luigi Siries ed assisterlo a commettere una mariuoleria di questo genere? Ma lasci fare a me, che a suo tempo saprò pagarlo molto bene delle sue ladre fatiche ed insegnargli il vero mestiero del prete e del proposto. Riguardo a voi, ben me l’aveva scritto da Livorno il mio fratello Paolo, quando gli mandai il mio manoscritto perché vel facesse avere: non m’impacciassi per nulla col signor Luig^ Siries, tristanzuolo mal costumato, pieno di vanitá, di raggiri e di malizie, a detta d’ogni galantuomo della sua cittá. Io però, gabbato dalle vostre lettere tutte spiranti modestia e preso al [p. 298 modifica]

laccio delle vostre insidiose offerte, gli risposi volesse andar adagio nel credere al male dettogli di voi, e vi trasmessi il mio manoscritto con tanta intiera fiducia che non volli né anco tenerne copia. Mio danno dunque, se me l’avete accoccata e se il manoscritto è ora distrutto ! Non ho scusa del mio essere stato corrivo nel fidarmi se non quella di dire che, quando non ho evidenti pruove del contrario, soglio giudicare ogn’uomo galantuomo, e che pel mezzo d’un breve carteggio non è troppo possibile distinguere i fiirfanti dalle persone dabbene. Manco male però, che colla precedente mia v’ho costretto a cavarvi la maschera da volere a non volere; v’ho obbligato a mostrarvi quel perfetto furfante che non vi credevo. Qual castigo le leggi della Toscana vi volessero dare per una malvagitá di questa strana spezie, s’io me ne richiamassi a quelle, non lo so. So però che sará mia cura, ancorché lontano, di farvi conoscere per un perfetto furfante a que’ che non vi conoscono peranco, onde ogn’ incauto si guardi da voi e da’ vostri tiri da monello. E nello esporre che farò colle stampe il vostro perfido carattere all’occhio de’ vostri compatrioti, non mi scorderò nella penna la somma insolenza del vostro aver soppresso, come mal suddito che siete, la mia Lettera all’editore, nella quale si facevano due riverenti parole di quell’augustissimo personaggio che ha la caritatevole clemenza di darvi del pane. Perché, birbone, far solamente motto d’un sovrano a voi straniero, che aiuta magnanimamente le arti, e non accoppiarlo, come avevo fatto io in quella Lettera, al vostro granduca, il quale fa la medesima cosa a suo potere? Né occorre mi rispondiate che non voleste stampare quella mia Lettera perché era diretta a voi. Non v’aveva io scritto di porla in fronte al libro senza il nome vostro, se temevate che un tanto onore v’avesse a procacciare l’invidia e il malvolere de’ vostri fiorentini? Il mio mostrare a tutti che siete un poco di buono sará poca pena ad un ladroncello, che fura all’Italia un’opera fatta con ogni diligenza da un uomo dabbene incanutito negli studi, per darle in cambio una cosacela adulterata e guasta da capo a fondo da un giovanastro briccone, che non sa né anco la grammatica, né anco l’ortografia della [p. 299 modifica]

sua propia lingua. Ma che altro posso fare in questo caso? quale piú severo castigo posso io darvi a tanta distanza, onde la giustizia s’abbia quanto dovrebbe avere? Orsú, signor Luigino amabilissimo, datevi le buone feste dell’infame birbonata che d’accordo col proposto Lastri m’avete fatta, e ridetevene, che avete ragione. Addio, insigni e principaU campioni della lingua, della letteratura e della onoratezza fiorentina. Vi saluto tutt’a due molto caramente.