Prefazioni e polemiche/III. Primo cicalamento di Giuseppe Baretti sopra le cinque lettere del signor Giuseppe Bartoli intorno al libro che avrà per titolo: «La vera spiegazione del dittico quiriniano» (1750)

III. Primo cicalamento di Giuseppe Baretti sopra le cinque lettere del signor Giuseppe Bartoli intorno al libro che avrà per titolo: «La vera spiegazione del dittico quiriniano» (1750)

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III. Primo cicalamento di Giuseppe Baretti sopra le cinque lettere del signor Giuseppe Bartoli intorno al libro che avrà per titolo: «La vera spiegazione del dittico quiriniano» (1750)
II. Prefazioni alle tragedie di Pier Cornelio tradotte in versi italiani (1747-8) - III. Al conte Gioseffo Anton-Maria del Villars Carrocio torinese IV. A dissertation upon the italian poetry in which are interspersed some remarks on mr. Voltaire’s Essay on the epic poets (1753)

[p. 67 modifica]Ili PRIMO CICALAMENTO DI GIUSEPPE BARETTI SOPRA LE CINQUE LETTERE DEL SIGNOR GIUSEPPE BaRTOLI INTORNO AL LIBRO CHE AVRÀ PER TITOLO: LA VERA SPIEGAZIONE DEL DITTICO QUIRINIANO (1750) [p. 68 modifica]



Nella letteraria repubblica qual patente, qual diploma, qual privilegio ha piuttosto uno che un altro, per potere su qualunque materia tra chi che sia palesare il suo sentimento?

Bartoli, Lettera III.



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QUI COMINCIA IL PRIMO CICALAMENTO


Finalmente anch’io ho spese le mie tre lire e mezza, e ho comprate quelle Cinque lettere del signor Bartoli. Io ne aveva sentite dire tante e tante, e pro e contra quelle, che anch’io ho voluto vederle per giudicarne da me medesimo; e dopo averne letta la prima, ho data cosí di galoppo un’occhiata all’altre quattro. Ma se l’ho a dire con tutta schiettezza, non mi pare d’avere troppo bene spesi que’ pochi soldi in quel libro, non vi trovando una sola pagina che mi muova a leggerla tutta con piacere, e non vi scorgendo la minima traccia di cosa che mi paia da cavarne vantaggio o per me o per altri. Gli è un libro scritto con tanta ricercatezza di stile, che mi fa morire di stento, come additerò quando verrammi in taglio in questo o in altri miei cicalamenti sopr’esso. Ma gli farei ancora grazia dello stile affettato e contra natura, se almeno le cose che dice mi compensassero in qualche picciola parte della seccaggine di quello, se almeno vi trovassi dentro cosa alcuna utile a me o che conoscessi poter riuscire vantaggiosa ad altrui. Ma quale vantaggio può ritrarre la umana societá da quel libro? e che può importare alla savia gente il sapere cosa significhino sei figurine intagliate sull’avorio forse duemill’anni fa? Vorrei un poco che il Bartoli o qualche amico suo mel dicesse. Un libro in quarto di trecento pagine sopra un dittico quiriniano, cioè sopra una manifattura d’uno artefice antico, che servi di coperta a un libro, confesso il vero, non mi pare che dovesse scriversi da un uomo di senno quale dovrebb’essere il signor abate Bartoli; eppure egli ha voluto imitare, anzi vincere, tanti e tanti moderni perdigiornate, che in somiglievoli inezie vanno spendendo il preziosissimo tempo. [p. 70 modifica]

E purtroppo questa è ormai la vera filosofia, questi sono i gravissimi, gl’importantissimi studi de’ saccenti europei d’oggidí. Si è trovato il segreto a’ tempi nostri di scrivere de’ grossi tomi, uno sopra una medaglia, un altro sopra un idoletto, un terzo sopra un tripode, sopra una lucerna, sopra un’urna, sopra un cammeo, sopra un’iscrizione, sopra un canchero... che quasi l’ho detta. E mi rincresce davvero che il signor Bartoli sia anch’egli nel numero di questi sapienti.

Egli stampò nell’anno 1746 un manifesto, che in greco si chiama, m’immagino io, un «programma», sopra una cosa che a me non pare poi una cosa tanto stupendissima, cioè sopra la coperta d’avorio d’un libro, nella quale sono intagliate, come dissi, alcune figurine; la quale coperta in greco o forse in latino, che io non me ne intendo gran fatto, si dee chiamare un «dittico»; al qual dittico, perché fu prima d’un papa Paolo e poi d’un cardinale Quirini e poi della biblioteca vaticana, il signor Bartoli dice che egli lo vuole chiamare «quiriniano». L’etimologia dell’epiteto mi par bella assai.

In quel manifesto dunque il signor Bartoli, dopo d’aver detto decisivamente che «non v’è pezzo in tutta l’antichitá figurata cosi famoso» come quel dittico; dopo d’averci data l’importantissima notizia che «una incredibile moltiplicitá di scritti de’ piú celebri letterati è uscita» sopra questa miracolosa coperta d’un libro; dopo aver fatta una lunga enumerazione di accademie intere e di molti strepitosi dottori in anticaglie che hanno scarabocchiata di molta carta per «illustrarla» a loro potere; dopo tutte queste cose, il signor Bartoli viene a dire molto umilmente che egli solo soletto ha «trovata sino nel 1744 e nel propio mese di settembre [l’epoca è interessante] la vera spiegazione di esso dittico quiriniano». E poi volendo «esporre al pubblico» questa sua scoperta, che mi fa ricordare la scoperta dell’Indie, «rinunzia di buona voglia a quel vantaggio che riportan coloro i quali dubitativamente propongono somiglianti dichiarazioni». Vorrei un poco sentire dal Bartoli la spiegazione di questo periodo, e tiro innanzi colle parole sue. Egli «propone» dunque «la sua dichiarazione» per «indubitabile in ogni parte; [p. 71 modifica]

e per palesare a tutti la persuasione dell’animo suo, fondata sopra quanto v’è di piú sicuro sopra si fatte materie, vuole dar fuori fra un anno [cioè nel 1747] un libro il quale avrá per titolo: La vera spiegazione del dittico quiriniano». Ma passa l’anno 1747, passa l’anno 1748, passa l’anno 1749, e giá tocchiamo del 1750, e ancora quel libro non si vede comparire, e quella Vera spiegazioíie , quantunque da lui trovata sino in settembre 1744, cioè piú di sei anni sono, ancora non fa cenno di sbucar fuori.

E che domine sta egli dunque facendo che non la manda alla chiarissima luce delle stampe, dopo sei anni che 1* ha trovata, quella sua «vera, certa, compita e facile spiegazione, indubitabile in ogni sua parte, e tanto veramente facile che anzi stupore in lui si destò per averla si tardi pensata di quello che diletto per averla alfin rinvenuta»?

Dopo tali positive parole, che a molti parvero un poco arroganti e che a prima vista sembra non vogliano dir altro se non che sciocchi sono stati tutti coloro da lui nominati nel manifesto, che la dovevano prima trovar essi a occhi chiusi ; dopo tali parole, dico, tutto il mondo poteva aspettarsi con ragione questa sua scoperta, questa nuova America di piú ; eppure ella non è ancor venuta, non viene ancora. Oh non dubitate, signori miei, che verrá; e voglia solamente Dio che non sia poi la montagna che partorisce il sorcio e che muove a riso tutto il mondo. Intanto in settembre del presente anno 1749 il signor Bartoli comincia il prologo della commedia: comincia a pubblicare «cinque lettere», le quali devono essere, per dir cosi, le precursoresse del libro che sará intitolato La vera spiegazioTte. Sono quelle lettere che ora prendo a stacciare un pochino. Sono stampate in quarto, lasciatemelo replicare, di trecento facciate, in due o piú luoghi delle quali il signor Bartoli promette di giustificarsi appieno appienissimo o, per dirlo alla sua foggia, «accingersi a tutte le parti della propria giustificazione», e scusarsi dell’avere tanti mesi e tanti anni tardato a mandar fuori quella V’era spiegazione tanto «facile» e «indubitabile»: parole che mi fecero alla prima sperare che minor tempo di sei anni dovesse bastare per tutta [p. 72 modifica]

scriverla e stamparla. Ma il Bartoli, invece d’impiegare quelle trecento pagine tutte in giustificarsi veramente, che avrebbe cosi fatta una cosa forse mediocremente necessaria, mi pare che si scordi quasi di farlo; mi pare che invece di giustificarsi vada menando il can per l’aia, narrando molte particolaritá della vita sua; mi pare che vada riferendo molte lettere scrittegli da piú d’un cardinale e da molti uomini molto dotti; mi pare che vada lodando in infinito que’ signori molto dotti e da esso battezzati «illustri», «celebri», «eruditi», «valorosi», «famosi», «valenti», «sapienti», «acuti», «avveduti», «rinomati», «venerati», «letterati», con altri somiglievoli epiteti in copia grande, come vedremo ancor meglio in altro luogo; mi pare che vada troppo cianciando d’un certo Dione Cassio e delle note fattegli da lui e da altri ; mi pare che vada spargendo qui e qua pel suo libro a caso, o vogliam dire ad arte, qualche mordace tratto contro alcuni che non mostrano di stimarlo altamente, cosa che si poteva per avventura risparmiare; mi pare che vada stranamente frammischiando le ingiurie colle lodi al dottor Lami, autore del Giornale di Firenze, perché l’ha troppo beffeggiato nel suo giornale; mi pare che contengano la difesa di certe «incerate penne», sopra le quali dirò qualche cosa, quando sará tempo, andando avanti con questo mio scrivere, se avrò tanta pazienza; mi pare in somma che contengano centomila scientifiche baie, che poco o nulla hanno che fare colla sua «propria giustificazione» e colla Vera spiegazione del dittico quiriniano; e che non ha scritte per altro che per ingrossare il libro, e altri direbbono per far pompa della sua immensissima erudizione, che dal tempo di Bartolommeo in qua non se n’è mai piú veduto far tanto sciupo e tanto guasto. E il meglio è che quelle «cinque lettere» saranno poi un bel nulla in paragone della Vera spiegazione, allora quando, come dicono molti, alla prefata montagna si moveranno le doglie del parto. Egli è ben vero che chi vorrá vedere quella Vera spiegaziofte, quando sará partorita, dovrá pagare uno zecchino; ma io giuro anticipatamente che non avrò mai la buona sorte di vederla, non essendo soverchio curioso e tanto avaro per natura, che non pagherei nove lire e quindici [p. 73 modifica]

soldi neppure per vedere uno elefante, che a me sembra tuttavia piú grossa bestia che non la vera spiegazione d’una coperta antica di un libro.

Ma io sono stato un po’ troppo sulle burle con questo dittico. Lasciatemi dunque parlare anche un poco sul sodo e da buon piemontese, e discorrerla cosi in generale sopra questa epidemia, sopra questa vera peste che da un mezzo secolo va serpendo, anzi pure inondando tutta la dotta Europa. Non è egli una vergogna, un peccato, un vitupero, che tanti uomini dotati da Dio di molto ingegno lo buttino via cosi malamente, cercando con tante veglie e con tante fatiche di penetrare in tante antiche frivolezze e puerilitá? Supponiamo un poco che un qualche dotto romano antico risuscitasse a’ giorni nostri : e che credete voi che direbbe, vedendo occupati e perduti cento, dugento e trecento autori, e migliaia e migliaia nello scrivere e tornare a scrivere de’ libri e de’ libri per indovinare il significato d’un bassorilievo, d’un cammeo, d’una lapide e di cotal altra frivola cosa? Quanto non riderebbe in vedere tanta buona gente sudare gli anni e gli anni per restituire un passo mancante d’uno scrittore antico; per fissare un’epoca o un punto cronologico che non accresce o diminuisce l’antica storia; per penetrare il vero senso d’una frase che a noi parrá oscura e che in diebtis illis fu. per avventura chiarissima? Quanto non si stupirebbe vedendo poi tal gente non istudiare neppure superficialmente le leggi e gli usi della propria patria, dover principale d’ogni onesto cittadino quando il può fare; non applicarsi punto a dare qualche nuovo lume intorno al commercio, all’agricoltura, alle meccaniche e ad altre simil cose; non pensar mai a scrivere qualche util libro contro gli abusi e contro i mali costumi che si vanno introducendo o che giá sono miseramente introdotti nel loro paese? Ma quanto poi non si sganascerebbe dalle risa un qualche coetaneo del re Porsenna, se con quel romano risuscitasse anch’egli ogg^ e sentisse dire che un bello spirito fiorentino, deg^o membro della celebrandissima e dottrinevolissima accademia cortonese, si vanta d’avere dopo uno studio di vinticinque anni saputo fare un distico nella antichissima lingua [p. 74 modifica]

etrusca? E non solamente non c’è spedale per questa strana specie di matti, ma il secolo è cosi inasinito dietro le anticaglie, che costoro sono anzi avuti da tutti per uomini pregni di vera dottrina e di vero sapere.

Io però voglio sempre, dica chi vuole, avere molto piú cara la mia somma ignoranza nelle anticaglie che la sciocchissima scienza di fare due versi in lingua etrusca, o un bel tomo sopra un’abbreviatura greca o latina, o due grossi e disonesti volumi sopra una coperta d’un libro. Ben mi duole nell’anima il vedere questa epidemia, questa peste di frivola e falsa letteratura pigliare troppa forza nel nostro Piemonte, e ducimi vedere alcuni de’ nostri giovanetti bel bello tirati fuor di strada dal cattivo esempio de’ malaccorti dotti forestieri, i quali si vanno gli uni gli altri laudando e adulando e fregando e leccando e barattando gli epiteti di «dottissimo» e di «eruditissimo», facendosi con questo inganno credere al mondo magni e venerandi scrittori ; e hanno fatta una certa lega fra di loro, che chi ardisce toccarne uno, gli volano addosso come le vespe a chi stuzzica il loro vespaio, imperciocché vogliono tutti, o per amore o per forza, essere rispettati come Bibbie.

Non è però ch’io danni assolutamente lo studio delle antichitá; ma vorrei che un po’ di moderazione si facesse, massime nel mio paese, che è quello per cui voglio principalmente interessarmi. Io approvo dunque e lodo a cielo che nelle grandi cittá, e spezialmente in quelle dove risiedono sovrani, vi sieno, se non basta uno, anche molti musei e gabinetti pieni di cose antiche, non meno che di sontuosi templi, di gran palagi, di universitá, di collegi, di accademie, di teatri e di edifizi pubblici e di tali altre cose che, oltre al vantaggio che se ne trae in molte maniere, sono anche di decoro a quel tal paese e giovano a far comprendere non meno la magnificenza che la potenza d’un principe e de’ sudditi suoi. Ma ristringendomi al particolare de’ musei e de’ gabinetti d’anticaglie, non mi pare laudevole che ci abbia a esser poi gente che unicamente spenda tutta la vita, come dissi, conghietturando e strolagando dietro a quelle galanterie; che galanterie piuttosto che altro si denno le anticaglie riputare. [p. 75 modifica]

E qui si noti bene che io divido lo studio comunemente chiamato «delle antichitá» in due parti. La prima, che non approvo in alcun modo, è lo studio degli antichi monumenti da’ dodici Cesari in su, anzi dalla donazione di Costantino indietro: studio che io soglio chiamare «delle anticaglie», perché questa parola ha un po’ dello spregevole nel suo vero significato. Né qui intendo dire di que’ pittori, scultori, architettori o simil gente, che studiano intorno alle statue e marmi antichi ancora esistenti a’ tempi nostri, perché quello si dee chiamar piuttosto osservare e copiare che studiare gli antichi monumenti. La seconda poi, che è quella ch’io chiamo «vero studio delle antichitá», è lo studio delle antichitá che possono avere influenza sulla storia, da Costantino e da papa Silvestro sino a noi; studio che può riuscire di vantaggio a piú d’un sovrano e per conseguenza a piú d’un paese, per molte ragioni, che chi è alcun poco pratico de’ vari interessi e delle cose di molti principi europei saprá scorgere da sé facilmente, senza che io mi dia ora l’incomodo di farne un trattato giá fatto da altri. Ma quello «studio delle anticaglie» non è da favorire, secondo me, né da proteggere pubblicamente in nessun paese (eccetto in Roma, perché colá le anticaglie sono un gran capo di commercio, grazie alla curiositá delle altre nazioni), perché studio che priva la patria di alcun bello ingegno, rendendoglielo inutile. E da questi miei principi è nato in me quel ribrezzo, quel pochin d’astio ch’io ho con quell’accademia cortonese, instituita perché gli accademici ricevuti in quella «attendono spezialmente alle antichitá etrusche»: accademia fondata sicuramente dal piú solenne pazzo che sia stato da Orlando in qua; e pazzi letterati sono per mia fé tutti que’ signori accademici, il piú famoso de’ quali è stato capace di fare un distico in lingua etrusca dopo vinticinque anni di studio, come vi dissi di sopra, e dal quale fra vinticinque altri anni, se sarem vivi, aspetto un qualche bel sonettino alla maniera del Zappi, recitato dal poeta della corte di Porsenna in lode del generoso Muzio Scevola. Le anticaglie greche e latine le metto tutte in un mazzo colle etrusche, e nolle vorrei vedere né nel mio paese né in altri studiate perdutamente da tanti, eccetto da qualche romano, [p. 76 modifica]

torno a dire. E solamente la menerei buona ad un privato, a un giovane nobile e ricco, l’attendere un poco a tale studio per consumar l’ozio, che costui sarebbe mille volte piú lodevole che non tanti cavalieri e ricchi giovani d’ogni paese, i quali guastano i loro piú begli anni, e talvolta tutta la vita, fra le carte o ne’ bagordi o in altro peggiore esercizio; e quell’agiato giovane che acquistasse qualche cognizione de’ cammei, delle lucerne, de’ sigilli e d’altre cotali antiche frascherie, e che i danari che gli altri gittano al giuoco impiegasse in comprarne alcune, si può dire che passerebbe il tempo onestamente egli e darebbe anche piacere a qualche curioso, facendogliele poi vedere bene ordinate in una o piú bacheche. Ma che un Bartoli, maestro di molti giovanotti, scialacqui tanto tempo stampando «lettere» di trecento pagine in quarto sopra i cartoni d’un libro, e che ci minacci per giunta d’una Vera spiegazione di que’ cartoni, che dev’essere di ottocento simili pagine per lo meno, quando si ragguagli il zecchino che costerá alle tre lire e mezza che costano quelle cinque lettere; un Bartoli, obbligato a studiar bene la vera lingua toscana per insegnarla a parlare e ad elegantemente scrivere a’ medesimi scuolari suoi; un BartoH, pagato bene perché s’affatichi di e notte sintanto che sappia quanto si può sapere di greco, onde si renda sempre piú abile a dettarlo; un tal Bartoli, dico, stampa tomi e poi tomi sopra un dittico quiriniano? Oh, con sua buona grazia e di chi che sia, a me non pare ch’egli faccia cosa da cavarne meritamente approvazione ed applauso; anzi sono per dire ch’egli medesimo dovrebbe essere il primo a frenare que’ malaccorti e vanagloriosi discepoli suoi, che vedesse a briglia cosi abbandonata correr dietro a tali frivole cognizioni; egli dovrebbe reprimere l’impeto loro, ed ammonirli, e sgridarli, e farli anche a un bisogno sgridare e correggere da gente di credito e di autoritá, onde rivolgessero a miglior meta le fatiche e gli studi loro; e non farsi loro guida e dar loro, quanto può, esempio in se stesso a perdere tanti anni e tanti dietro quelle galanterie e frascherie; e quasi quasi direi, traviarli sino ne’ primi passi che fanno nell’universitá, dove la regola vuole che i giovani [p. 77 modifica]

Studenti comincino dalle belle lettere. Se io fossi in lui, io vorrei anzi gridare a’ giovani piemontesi, volonterosi di studiare, di attendere all’acquisto delle lingue, alla robusta e vera eloquenza, alla medicina, alle leggi, alle fortificazioni, alla dritta filosofia, ed in somma a quelle scienze ed arti delle quali hanno bisogno e per loro particolar vantaggio e per fare sempre piú fiorire il paese loro; e gli esorterei a lasciar buttar via il tempo agli oziosi e pazzi stranieri nell’acquisto delle infinite cognizioni inutili, e raccomanderei loro principalmente di apprendere a scrivere con puritá ed eleganza in italiano e in francese per rendersi vie piú abili a servire il sovrano nelle segreterie, negli offici.

Che non volle il signor Bartoli nostro, quando si pose a scrivere del dittico, prender anzi ad imitare que’ due nostri abati galantuomini, uno de’ quali è certo in cielo, che scrissero de’ marmi torinesi? Obbligati que’ due a spiegare i marmi che sono incastrati nel muro sotto l’interior porticato dell’universitá nostra, con poche dissertazioni li spiegarono tutti ; che se toccava a lui a fare quella fatica, ci accresceva la pubblica libreria della metá per lo meno. Cosi, come que* due degni abati, scrivono coloro che sanno e che fuggono la letteraria ciarlataneria.

Forse ch’io qui trascorro un poco con la penna, e parlo forse con piú alta voce che ad un poeta da tre quattrini par mio non converrebbe; ma questa mia benedetta natura, soverchio veritiera, io non la posso alle volte frenare a mio modo, e massimamente quando io vedo o sento certe cose che la ragion mia mi mostra pazze e vane e che da tanti falsi e pidocchiosi dottori mi vengono celebrate per sublimi e magne e venerande; e tale è, non lo mi posso cavar del capo, questa fanfaluca del dittico quiriniano.

Se io fossi stato nel Bartoli e se avessi saputa trovare, come ha trovata egli nell’anno 1744, la Vera spiegazione di quel dittico, io l’avrei pubblicata sicuramente in alcuno di que’ sei anni che sono scorsi d’allora in poi, senza soverchio corredo di erudita impostura. E se il Bartoli non crede che io l’avessi potuta «nel breve spazio di sei anni» pubblicare, io gli posso giurare il [p. 78 modifica]

contrario, perché io ho di molti maravigUosi segreti per comporre presto e bene lettere, dissertazioni, cicalamenti e simili cose; e per mostrargli che non gli dico menzogna, gli voglio dare un piccol saggio della mia segreta scienza, facendogli regalo d’una ricetta coU’aiuto della quale egli potrá fare un unguento eccellente. E a che servirá questo unguento? Servirá di preservativo contro gli attacchi di quella spezie di frenesia che muove gli uomini a fare molti volumacci sopra ogni cosa da nulla; servirá a impicciolire, prima che vadano allo stampatore, tutti i libri troppo grossi e deformi ; e servirá principalmente a fare una Vera spiegazione del dittico quiriniano la piú leggiadra e la piú «facile» e insieme la piú breve che dir si possa. Ma prima bisogna preparare il corpo con alcune linee estratte per lambicco dalla prima delle «cinque lettere» del medesimo signor Bartoli, le quali linee dicono cosi:

E torna altresí bene che qui ad ognuno piú apertamente io dichiari sette cose, cioè:

Primo. Che per impresa del libro, in cui pienamente ed evidentemente si conterrá l’accennata spiegazione, mi varrò d’un verso e di cinque parole del susseguente, tratto dalla lettera d’Orazio a’ Pisoni.

Secondo. Che si riporrá il dittico nella spezie d’alcuni toccati da Giovenale.

Terzo. Che si dará maggior lode all’autore di questo dittico che ad uno imitatore di Pindaro.

Quarto. Che si conoscerá essere in amendue le tavolette di questo effigiata una cosa la quale generalmente si legge espressa in un esametro d’un’altr’opera del predetto Orazio, quando ad un caso obbliquo si sostituisca un retto.

Quinto. Che della prima tavoletta la prima figura sará spezialmente dilucidata dal canto di un barbaro, noto ad un greco, ad un franzese e a mille italiani ; la seconda figura poi si vedrá individuata da sei sillabe d’un verso del sopranominato poeta venosino.

Sesto. Che l’uomo della seconda tavoletta si troverá essere quale ce lo descrisse Plinio.

Settimo ed ultimo. Che finalmente alla donna si vedrá recata singoiar luce da due versi di Marziale. [p. 79 modifica]

Ecco le linee di quello speziale, dalla cui bottega trarremo ora noi le droghe che abbisognano per comporre il nostro unguento, che chiameremo: «Il vero, certo, facile e compito e indubitabile unguento per fare le Vere spiegazioni de’ dittici quirinimii». Dunque:

Primo. Recipe «un verso e le cinque parole del susseguente d’Orazio» intese a tuo modo; aggiungi commento ben pulverizzato e una dramma di relazione al dittico: in tutto pagine tre di stampa in quarto.

Secondo. Recipe alcuni «dittici toccati da Giovenale» e riponi il quiriniano fra quelli : tre altre pagine delle suddette, compreso un buon pezzo di commento misto con un poco di probabilitá, se ne puoi trovare.

Terzo. Recipe molte «lodi», ma di quelle «maggiori» che troverai; intridi con qualche giudizietto rovescio e frusto «di Pindaro e de’ suoi imitatori». Avverti che quella «maggior lode» renderá l’unguento odorifero molto; onde una pagina e mezza in tutto basterá, perché la «lode» dev’essere sempre poca, massimamente a quegli autori che sono morti da trenta secoli.

Quarto. Recipe «un verso esametro» pur «d’Orazio»; sostituisci «al caso retto un obbliquo», onde vi rimanga «espressa una cosa effigiata nelle tavolette»; un po’ di commento misto con uno scrupolo di difesa d’Orazio storpiato: ana pagine cinque.

Quinto. Recipe «una delle figure del dittico»; dilucida con «un canto» o sia canzone «d’un barbaro» di Barberia; fa’ che sia «noto a un greco, a un franzese e a mille italiani» ; aggiunga r«altra figura»; dilucida anche quella con «sei» sole «sillabe d’Orazio»; e pel «canto del barbaro», per le «sei sillabe», pel solito commento pulverizzato, pe’ due nomi del «greco» e del «franzese» e pe’ nomi de’ «mille italiani», se per disgrazia occorresse nominarli tutti, sedici buone pagine delie suddette di stampa in quarto.

Sesto. Recipe quelle poche righe di «Plinio», dove «descrisse l’uomo della seconda tavoletta», che al piú sará mezza [p. 80 modifica]

pagina di «Plinio»; aggiungi una pagina e mezza di spiegazione e un’altra pagina di commento fuor di luogo: sono in tutto tre pagine.

Settimo ed ultimo ingrediente. Recipe «finalmente due» soli miserabili «versi di» un «Marziale» che non sia stato bruciato dal Navagero, che «daranno singoiar luce al dittico»; commento e applicazione: ana pagina una.

Facciamo adesso il conto, per non mancar poi nella manipolazione delle suddette droghe, quante pagine abbiam detto che ci vogliono per fabbricare il mio unguento. Tre pagine dunque pel primo ingrediente e tre pel secondo, fanno sei; e una e mezza pel terzo, fanno sette e mezza; e cinque pagine pel quarto, sono dodici e mezza; e sedici pel quinto, sono vintiotto e mezza; tre pel sesto, fanno trentuna e mezza; e una pagina finalmente pel settimo ed ultimo ingrediente, sono appunto pagine trentadue e mezza. Si aggiungano gratis sul totale pagine diecisette e mezza per la maggiore verbositá del signor Bartoli, cioè per tutte le soverchie annotazioni e per tutte le citazioni greche, latine, francesi e tradotte da’ «leggiadri traduttori» dall’ inglese; per tutti i versi di Dante, del Petrarca, d’altri autori e di se medesimo, occorrendo; per la difesa delle «incerate penne» e per un sonetto sopramercato: cose tutte che non hanno per lo piú che fare colla «propria giustificazione» e colla «vera spiegazione». Dunque tali diecisette pagine e mezza per tanta maggior verbositá, come s’è detto, unite alle trentadue e mezza necessarie per gl’ingredienti, faranno in tutto pagine numero cinquanta di stampa in quarto, che ti daranno il desiderato unguento in tanta abbondanza che ne avrai da ungere e da bisungere tutti i dittici del mondo, e il quiriniano a preferenza di tutti gli altri.

Ma quantunque la mia ricetta sia chiara chiarissima, io temo tuttavia che il signor Bartoli non saprá forse mai valersene, cioè fare e adoperare ne’ suoi mali questo mio raro e prezioso unguento, per due ragioni. La prima, perché bisogna che chi l’ha a manipolare sia persona destra e spacciativa; e il Bartoli è lungo trecento pagine per saggio. La seconda è, che il morbo > [p. 81 modifica]

o vogliam dire la frenesia, di scrivere tomi e poi tomi non deve essere a nativitate, altrimenti l’unguento perde la sua miracolosa virtú; e il signor Bartoli ha portato quel morbo dal ventre della sua mamma Padova, onde c’è apparenza che sia male incurabile. E perciò, lasciando l’unguento da parte, gli dirò solo che se egli, esempligrazia, ci avesse data la sua Vera spiegazione in una galante e spiritosa dissertazioncina senza tanto esercito di chiacchiere dietro e dinanzi, io gliene avrei avuto obbligo il primo e l’avrei pregato a nome di tutti i giovani studenti di Torino di darcene una o due tutte le vacanze sopra somiglievoli argomenti, per leggerle poi alle nostre dame su alle ville del nostro delizioso monte, per variare i nostri passatempi campestri. Ma darci pagine numero trecento precursoresse di una V^era spiegazione di pagine numero ottocento, oh questa non si può digerire, non si può; e il signor Bartoli non avrebbe fatto questo cosi solenne sproposito, se avesse avuto tanto cer\’ello di farsi imitatore del nostro buon vecchio Tagliazucchi, suo predecessore nella cattedra di belle lettere. Chiamato il Tagliazucchi a Torino poco dopo la memorabile ristaurazione della nostra universitá, vi trovò poca o ninna cognizione della bella lingua toscana, poco giusto e poco amore alla greca e alla latina; e tuttavia non si spaventando punto della difficolta dell’impresa, a dispetto di alcuni suoi vituperevoli emoli, si pose a lavorare indefessamente il mal coltivato campo, e gli riusci di fare in pochi anni un bel numero d’allievi che ornano adesso molto bene la patria e che fanno veramente onore al loro caro maestro. Nella scuola, guai che il Tagliazucchi ci avesse infinocchiati con anticaglie: ci raccomandava bene d’imparare a scrivere con puritá ed eleganza in italiano e in latino, e molti g^iovani rese pratici quanto basta della lingua greca. La casa sua era aperta di e notte a tutti, e tutti raccoglieva teneramente, a tutti volentieri imprestava i suoi libri, e non si stancava mai di additarci per qual via un suddito ecclesiastico o secolare può e al sovrano e alla chiesa utilmente ed onorevolmente servire. E ben potrei far bello questo mio cicalamento, nominando un eletto numero di giovani cavalieri e di cittadini che hanno lodevolmente seguito i suoi insegnamenti

G. B," RETTI, Prefasioni e polemiche. 6 [p. 82 modifica]

e i suoi consigli; ma perché né il signor Bartolí né altri mi possa tacciare d’un ’ombra d’adulazione, li passerò sotto silenzio, tanto piú che egli dovrebbe conoscerli al pari di me. E continuerò a dire come io desidero molto ardentemente che il successore dell’abate Tagliazucchi voglia cangiare il suo stile di studiare e d’insegnare, perché chi sa male per sé non può insegnar bene ad altrui. E se il signor Bartoli non vorrá attenersi al mio cordiale e dritto consiglio, gli predico, senz’essere astrologo, che non vedremo mai, come non abbiamo veduto sinora, alcun piemontese farsi gloria d’essere scuoiare di lui e seguace della sua dottrina, come tanti si facevano del Tagliazucchi ; e la sua dottrina non si ha a rivolgere in alcun modo tutta tutta a dilucidare e spiegare o «illustrare» un solo «pezzo d’antichitá»; altrimenti faremo voti e preghiere a Dio perché non gli conceda mai la grazia di scrivere le Vere spiegazioni di tutti i pezzi d’antichitá che sono nel museo di Torino; che sarebbe proprio la rovina e la consumazione totale della nostra carta da scrivere; conciossiaché se per ogni «pezzo d’antichitá» egli scrive un tomo di trecento pagine precursore d’un altro d’ottocento, la conseguenza è chiara come la chiara d’uovo, che avendo egli a spiegare tutti i «pezzi del nostro museo» ne fará tanti infiniti tomi di trecento e d’ottocento pagine, che posti poi tutti ordinatamente a modo di mattoni, ce ne sará di che fare un muro eguale a quello che divideva un tempo la Tartaria dalla China.

E se alcuno mi dicesse che non può capire come tanti uomini studiosi scrivano ed abbiano scritti tanti e tanti libri sulle anticaglie, e che se l’ hanno fatto è da supporre che avranno avute delle forti ragioni per credere questo studio molto utile all’umana societá, a ciò io rispondo che l’uomo è cosi fatto che cerca piú di soddisfare alla propria ambizione che a procacciare l’utile altrui, e rari sono coloro che scrivano con intenzione veramente di cooperare con le loro scritture al pubblico bene; e di qui viene che noi vediamo le librerie pregne di migliaia e migliaia di grossi tomi tanto sopra le anticaglie che sopra altre scienze, i quali o non vagliono una frulla o contengono [p. 83 modifica]

poco di buono, sparso, anzi annegato in molto di cattivo e d’inutile. E iersera appunto ho visto in casa d’un medico mio amico un volume assai grosso sopra la tarantola; ed avendo gittato gli occhi sui primi capitoli, non vi ho scorto altro che conghietture sopra la derivazione del nome di quel velenoso insetto e come lo chiamassero gli antichi greci; de’ quali greci si fa una numerosa divisione e si narra come una colonia d’essi errò per diversi paesi, e il perché e il come e il quando vennero in Italia, e dove si stabilirono, e della corruzione della lor lingua; e si ciarla poi come i latini nominassero anch’essi la tarantola, e se anticamente si sonassero le cetre o le lire o le pive a’ tarantolati, e simili minchionerie erudite che servono solo a far nota la stolta scienza del medico autore di quel libro; che colui doveva lasciar da un canto le conghietture etimologiche sopra il nome «tarantola» e i greci e i latini e le cetre e le pive degli antichi, e star saldo a dire del male e del rimedio della tarantola, senza riempiere i tre quarti del tomo di cosi sguaiata erudizione.

Se ci pogniamo a scrivere cosi, presto presto faremo de’ libri in quarto e in folio; ma bisogna o star zitto, o dir cose, e cose buone e non parole, e parole sempre inutili e a noi e agli altri. E ninno mi venga a dire che i cardinali, i marchesi e le accademie intere scrivono e hanno scritto e scriveranno sempre de’ grossi tomi sopra le anticaglie, e che io sono molto prosontuoso a volerle pur credere inutili e vane, e a consigliare a’ miei compatriotti di appena guardarle; che io voglio stare in ogni modo piú con la ragione che con le magne autoritá. E poi io non posso darmi ad intendere che i Quirini, i Maffei e le accademie di Francia, se fosser anche antiquari arrabbiati, non posso darmi ad intendere, dico, che approvino ed applaudano a chi non sa far altro che spiegar dittici a furia di carta scarabocchiata o iscrizioni etrusche, greche e latine e simili baie; e poi disgrado tutti gli antiquari insieme a provarmi, con parole semplici semplici e con ragioni chiare ed evidenti, che il dittico quiriniano meritasse che tanto «incredibile moltiplicitá» di scrittori si adoperasse con tutte sue forze per dilucidarlo. E nel mio [p. 84 modifica]

paese, che è quello pel quale io voglio, come dissi, principalmente interessarmi, io torno a ripetere che questa letteraria epidemia o peste non si ha a introdurre, anzi che si dovrebbe purgarlo di quella che v’è; che noi piemontesi abbiamo bisogno di sapere cosi cosi le cose antiche e le antiche storie, ma buon bisogno abbiamo di sapere le cose e le storie moderne, e piú quelle che ci toccano particolarmente; e non dobbiamo punto perdere il tempo intorno agl’infinitissimi antichi monumenti, pochi de’ quali ci possono appena condurre a intendere qualche non interessante oscuro passo di Livio, di Plutarco o d’altro simile autore; che ad ogni modo quello che abbiamo d’intelligibile in Tito Livio e negli altri storici antichi ci compensa abbastanza di que’ pochi passi o equivochi oscuri che nelle Deche di quello e ne’ libri delli altri incontriamo. E se mi si replicasse ancora che talvolta da una medaglia, da una iscrizione e anche da un dittico o da altra simil cosa, si può rilevare il vero senso d’una qualche legge antica o scoprirne qualche altra, io rispondo che delle leggi ne abbiamo una buona provvisione, e che una piú, una meno, non importa: basta che si studino bene quelle che ci sono, che a detta di piú galantuomini sono anzi troppe che poche. — Oh! — mi si può ancora dire per ultimo — e il soddisfare alla naturale curiositá degli uomini lo metti tu per nulla? — E a questo rispondo che il cercare di soddisfare questa passione onestamente va bene, o almeno non c’è gran male; ma che il cercare di soddisfarla con tanto inutile studio, con tante immense fatiche, con tanti disonesti volumacci in quarto e in folio, questo è male, questo non si dee cercare, e a questo sconcio è d’uopo che la piú giudiziosa parte della societá si opponga quanto può e con le parole e con la penna. Per sapere il significato di sei figurine, due grossi tomi, uno di trecento, l’altro d’ottocento pagine in quarto? Capperi! gli è un far pagare un po’ troppo cara la naturai curiositá, signor Bartoli mio, che, per finire questo mio a voi forse troppo noioso cicaleccio, esorto un’altra volta ad imitare il veramente dotto abate Tagliazucchi e a non piú affaticarvi tanto nelle anticaglie ; che ve ne verrá forse maggior utile alla borsa (e a questo articolo bisogna [p. 85 modifica]

badare alquanto in questo misero mondo), ve ne verrá maggfior onore e applauso e seguaci alla vostra dottrina, e ve ne verrá per ultimo un giovamento grande alla salute, che voi volete rovinarvi affaticandovi soverchiamente in cosi stolta e bastarda erudizione. Cosi sia.

QUI FINISCE IL PRIMO CICALAMENTO DI GIUSEPPE BARETTI