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I. Il sistema de' cieli

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I

IL SISTEMA DE’ CIELI

a tamarisco alagonio

Iam propiusque favet mundus scrutantibus ipsum, et rapii aethereos per carmina pandere census.

Manil, Astron., lib. i.



     O candido censor di quante vergo,
di vigile lucerna al cheto lume
o sul roseo mattin, delfiche carte,
caro alle muse ed al cetrato Apollo,
5del mio libero canto oggi tu sei
l’auspice degno; e nel sermon de’ numi
m’udrai narrarti qual tessendo inganno
io vada agli ozi del pomoso autunno
in questa solitudine tranquilla,
10dove inculta Natura offremi intorno
sparse sul monte antiche selve e case,
rustica vista. Ma ben altre ascendo,
su’ forti vanni onde m’impenna il tergo
la severa d’Urania amica destra,
15a vagheggiar non conosciute piagge
dal volgo indòtto, e lá mi spazio e godo
volgere per l’immenso etereo vano
imperioso a mille mondi il guardo.

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La cetra, allor che di sì lunga via
20pende, dolce conforto, a me dal collo,
oh come va d’armonico tremore
ondoleggiando irrequieta, e come
sento che, tese a maggior suon, le corde
sdegnano omai l’usato tocco, e quello
25chiedon di Caro e di Manilio invano!
Non però sempre del pensier m’innalzo
sul volo audace, e per le mute vie
dell’oscure contrade archimedèe
non sempre io mi raggiro. Ah! tu ben sai
30quante s’usurpi delle nostre cure
la creta vil, che la divina parte
chiude dell’aura che spirò sull’uomo
il Motor primo delle cose; e sai
che di seguir le non intese leggi
35dell’arcano commercio invan ricusa,
fervido il sen d’omeriche faville,
vate sul Xanto, o con Eulero a scranna
lettere e cifre a variar non lento
calcolator filosofo profondo.
40Alfin cedere è forza. I lievi spirti
per la nervosa region dispersi
un lungo meditar consuma e pasce,
e le troppo percosse imbelli fibre
fan che l’alma risenta il loro affanno
45Or odi come fra la doppia cura
di dar ristoro al giovin corpo, e l’alma
nudrir di filosofico pensiero
l’ore divida. Non sì tosto il sole
del pacifico mar notte lasciando
50sull’acque immense, ed in silenzio il vasto
Messico padre di molt’oro, e Cuba,
l’opposta parte del volubil globo
orna e riveste di purpurea luce,
ch’io balzo fuor dell’agitate coltri,

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55e con umil preghiera al del rivolgo
i pensier primi, che nel mondo errante
«non si comincia ben se non dal cielo».
Abil coppier frattanto agita e mesce
col dentato versatile strumento
60la mattutina d’oltramar bevanda,
e in lucida la versa eletta tazza,
del camuso Cinese aureo lavoro.
Fervida s’alza la disciolta droga,
e di fragranza liquida e di spume
65ricca sovra il capace orlo colmeggia.
Ve' come intorno a lei cadendo il raggio
vi spiega i bei colori, onde fra’ nembi
d' Iride il variato arco si tinge!
Ma di tante ricchezze alfin la spoglia
70il mio labbro digiun, che a sorso a sorso
va quel salubre farmaco libando,
e per dolcezza non invidia allora
il nettare, che largo in ciel mescea
alla mensa de’ numi il buon Vulcano.
     75Pieno cosí di nobil foco all’aure
apro grand’ala, che varcar non pave
gl’immensi tratti del profondo cielo;
e non della bivertice montagna
volo sull’erta, ma lá dove Atlante
80vastissimo sul curvo omero torce
l’asse ardente di stelle, e geme al pondo
dell’armoniche sfere. Ivi di schietto
a’ raggi permeabile cristallo
ruotan due cieli e il mobil primo, e sparso
85d’astri minuti il firmamento. In mezzo
a’ lumi erranti, all’instancabii sole
sul non movibil asse alto librata
pende la terra neghittosa, e sta.
Ma, mentre pingo arabe cifre e segno
90per l’artifizio di volubil punta

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di bifido compasso orbite e globi,
ecco tocca del monte arduo le cime,
su geometre penne remigando,
filosofo borusso, armato il braccio
95d’aspra per molti nocchi erculea clava,
e fermo su due piè contempla i giri
di tante sfere, e non fa motto. A lui
sta fra le rughe della fronte sculto
ponderamento astronomo, e novello
100del peripato sprezzator pensiero.
Non serba il volto un color solo, e torvo
sembra guatar del mobil primo il corso,
che dall’orto all’occaso, immensa via,
seco in un giorno i ripugnanti cieli
105turbinando rapisce e volve in giro:
or gli epicicli de’ pianeti e il vasto
eccentrico rotar laberintèo
fremendo osserva, or dal littoreo Cancro
al Capro, dell’Esperia onda tiranno,
110il sol vagante e la mutabil luna.
Indi, la vista gravemente tarda
a Saturno volgendo, a Giove, a Marte,
si meraviglia di vederne i corpi
nell’opposta del ciel parte sublime
115piú grandeggiare a noi movendo intorno.
Sdegnosamente alfin dietro le spalle
gittando alto la clava ponderosa,
sfende il cristal girevole, e de’ cieli
sfascia i solidi cerchi. Ululi e fioche
120voci confuse al vasto rovinio
mettono l’ombre, a passeggiar le Stoe
e ’l frondoso Academo un tempo avvezze;
e gli ombratici sofi, e ’l servo gregge,
che del tiranno stagirita al nome
125trema, e ne’ detti del maestro giura.
Ma sotto, intanto, a’ replicati colpi

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cigolando dicrollasi e rovina
il sognato del ciel macchinamento,
e Tolomeo da lunga invan sospira.
130Giá leva Atlante dal penoso incarco
libero il collo e le marmoree spalle
meravigliando; nella fulva arena
splendono i pezzi dell’infrante sfere.
Alle rovine il vincitor borusso
135esulta in mezzo; e, da sue voci scosso,
d’altri sofí antichissimo drappello
i tacit’antri e le pensose selve
lascia d’Eliso, e con maestra mano
il confuso de’ cieli ordin corregge.
140Ferve l’opra immortal. Facili i numi
al gran lavoro aspirano, che giacque
colpa di cieca opinione, avvolto
di smemorati secoli fra l’ombre.
Giá de’ corsier foco-spiranti Apollo
145a Pitagora cede il fren gemmato;
e, rimembrando pur l’acerbo caso
dell’inesperto agitator d’Eoo,
le gote irrora di paterno pianto.
Ma il samio auriga all’universo in mezzo
150ferma le rote del volubil carro,
e dal timon gli alipedi discioglie.
Quegli, esultando, per gli eterei campi
qua e lá sen vanno senza legge, e molta
dagli agitati crin fiamma si spande,
155finché vogliosi del notturno albergo
nel profondo s’attuffano del mare,
e non ascoltan piú l’ingrata voce
del mattin che dall’onde in ciel li chiama.
Ecco Nettuno dall’azzurre chiome
160a Filolao sdegnoso offre il tridente
scotitor della terra. Egli a due mani
nel sen lo vibra dell’inerte globo,

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e dal centro del mondo alfin lo svelle.
Con molta forza l’urta indi, e lo spinge
165sull’ampio calle, che traendo il lume
stampò d’orma immortale Eto e Piròo.
Segue la terra, e variando l’anno
va da se stessa dal monton frisèo
di segno in segno obliquamente a’ muti
170dell’acque un tempo, or cittadin del cielo.
Ma della terra a’ neghittosi perni
Eraclide ed Ecfante, anime audaci,
giá dan di piglio, e rotear sull’asse
la sforzan dall’occaso al lucid’orto,
175e le alternan col moto il giorno e l’ombra.
     Di nuovo, allor, con piú sicura mano
godo impugnar l’agevole compasso,
e, di proporzion la varia legge
fido serbando, in picciol foglio stringo
180il novello degli astri ordine e corso.
     Occupa il sol dell’universo il centro,
e a lui vicino in breve cerchio volge
del celebre Mercurio il picciol globo.
Segue, ma quasi in duplice distanza,
185dí tremolo splendor lampi vibrando,
l’astro del dí, l’astro forier dell’ombre.
Indi la terra non piú pigra, e seco
volve il pianeta; che, sdegnando in pria
d’ogni numero il fren, vagava in cielo
190dell’altre stelle regnator bicorne.
Sola poi vien la rubiconda stella
del fero Marte, e dopo lui l’immenso
Giove, che tanto gli è lontan quant’esso
dal sol due volte. In cosí vasto campo
195forse alcun’altra dell’erranti stelle
ruota da noi non conosciuta, e forse
suo picciol disco, e per gran macchie oscuro,
fe’ si che invan della ritrosa in cerca

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al notturno favor di doppia lente
200vagò pel ciel l’astronoma pupilla.
Quattro pianeti, all’etá prisca ignoti,
seguon di Giove imperioso i passi,
a lui rotando intorno. Alfin la pigra
del gelato Saturno oscura mole
205vien con cinque seguaci al largo anello,
che la circonda, alteramente in mezzo.
Qui d’un tenace meditar mi lascio
in preda tutto, e, dell’aperta palma
letto facendo alla pensosa fronte,
210l’ellittico girar de’ sette globi
ammirando contemplo. A tutti in mezzo,
d’un maestoso riposar contento
il sol risiede qual monarca, e spande
con potente vibrar di sue minute
215parti agitate da gagliardo moto,
onde immobile altrui volge se stesso,
su’ vassalli pianeti a’ rivi, a’ fiumi
la rosea luce ed il calor. Ma quale
di non sognate qualitá tesoro
220schiudemi il padre di color che sanno?
Io certo, io vidi balenar di rai
questa al dotto silenzio amica valle,
e scender d’alto maestosamente
lungo la riga d’or l’alma britanna.
225Mille sovra l’occhiute ali d’intorno
erravano al gran padre aerei silfi,
di trattar vaghi la volubil sesta
e l’angoloso prisma e, de’ segreti
spiatrice del ciel, l’ottica canna.
230Fida compagna da’ prim’anni al fianco
Geometria gli stava, e l’accigliato
calcolo instrutto di possenti cifre,
superbo domator dell’infinito.
Sotto al suo piede il gemin’arco avea

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235Steso alternando la viola e l’ostro
l’ali-dorata figlia di Taumante,
che, troppo in ciel della sdegnosa Giuno
odiando l’impero, alfin si feo
del tranquillo filosofo compagna
240e messaggiera, da che vide il raggio,
nell’angolar tersissimo cristallo
per lui rifratto, lumeggiar le sette
tinte del suo bell’arco, e i vivi escirne
misti colori onde s’abbella il mondo.
245Ma la consorte del Tonante e suora
bieca mirò la fuggitiva, e indarno
a lei davanti per temprarne il duolo
spiega il pavon le gemmi-sparse penne.
     Cosí pel ciel la grave ombra movea
250del mio Neutòno. Al suo venir la valle
tacque e la selva, e per udirne i detti,
immemori del suon, corsero a gara
dal colle i fauni, e sulla patria riva
drizzarono l’ondosa urna le ninfe.
     255Io piú volte l’udii l’ascose leggi
di gravitá spiegarmi, e dolce ancora
la dotta voce nel pensier mi suona:
— Vedi — dicea — que’ sette globi? Il centro
di que’ moti è nel sol. La vasta massa
260dell’infocato suo terreno attragge
ogni minor pianeta, e con tal forza
stende su lor di gravitá l’impero,
che dovrebbero tutti a lui nel grembo
piombar miseramente, ésca aggiungendo
265di quel liquido foco all’ampio mare.
Ma provvido a’ pianeti un retto impresse
corso il gran Fabbro, e bilanciollo in guisa
col tiranno poter che al centro inchina,
che d’ambo uniti ne compose un curvo
270inalterabil raggirante moto,

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onde al lucido sol fanno corona.
Ma l’attraente forza ognor decresce,
se lungi move dal suo centro il corpo,
e se degli astri l’inegual distanza
275tu replichi in se stessa: anco saprai
dal numero, che quadro indi n’emerge,
quanto il vigor di gravitá si scemi.
Nota non meno ti sará qual tempri
armonica ragion le corse vie
280del pianeta rotatile col tempo,
se di Keplero ascolterai la voce,
ch’alto rimbomba per l’etra profondo,
e gli astri infrena e n’equilibra i moti,
tal che in se stesso riferito il tempo
285alla distanza cubica risponde,
c’hanno fra lor l’erranti stelle in cielo.
     Ma la severa numerosa legge,
ch’agli spazi ed al tempo incider seppe
sulle celesti tavole il germano,
290legge è non men di gravitá, che tutte
con forza pari alla lor mole attrae
in ciel le stelle, e sulla terra i corpi.
Per lei volge sí ratto al sole intorno
il picciolo Mercurio, e cosí lento
295il remoto Saturno oltre sen va.
E l’oceán, che vicendevolmente
le terre allaga e nell’antico letto
librandosi in se stesso alto ritorna,
per forza sol d’attrazion si spande,
300e si raccoglie in liquide montagne,
docil seguendo il corso della luna,
tal che piú s’erge minaccioso e freme
il versatile fiotto, allorché piega
Cintia di nuovo sulla fronte il corno,
305o del fratello la raggiante imago
tutta ripete in mar dal pieno volto.

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Né le comete, benché tanta in cielo
volgano elisse oltre Saturno, e tanto
abbian lenti ritorni, a quella legge
310sottrar si ponno, che le chiama al sole,
da cui riarse, il vaporoso crine
a’ purpurei tiranni, al cieco volgo
stendono di terror lungo argomento.
     Invan ti fende di Cartesio il dotto
315immaginoso architettor pensiero
degli elementi suoi le parti in quadro,
e te le finge invan da doppio moto
fervidamente in vortici aggirate,
tal che l’urto fra lor gli angoli franga,
320e la sottil materia indi nascente
vuoto non lasci. Impenetrabil sono
e solide le parti ond’è composta
dell’universo la materia; e nulla
scorrer potrebbe, e mutar forma e sede,
325se vuoto alcun non distinguesse i corpi.
Vuoti dunque del ciel sono gl’immensi
ceruli campi, ove sciogliendo il corso
volvon pianeti per riflessa luce
chiari nell’ombre, e di splendor natio
330mille vibrano rai lontani soli,
e del peso e del moto insiem composte
seguon le leggi onde s’annoda il mondo.
     Or l’infinita provvidenza, e l’arte
di lui che primo d’un sol verbo impresse
335alla materia inoperosa i moti,
tacito ammira, ed i ravvolti in fosca
geometrica nube ardui segreti
osa meco tentar. Denso e compatto
piú d’ogn’altro è Mercurio, a cui si presso
340il sol lampeggia dalle vampe etnèe;
Venere è densa meno e piú lontana,
ed in ragion delle distanze varie

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la densitá si scema, e scema il moto.
Tu ben t’apponi, che, se men veloce
345fosse Mercurio a rivoltar sull’asse,
o se men densa di sue parti avesse
la marmorea testura, in breve fora
arso e disciolto dal propinquo ardore.
Ma quale incrudelir d’alpine nevi
350stagion dovrebbe, e d’iperboreo ghiaccio
nell’orride contrade di Saturno,
se di maggior crassizie il Fabbro eterno
l’avesse cinto, e se col lungo giorno,
che gli fanno goder sue tarde ruote,
355non ristorasse il mal che lo flagella
nel cerchio estremo sí lontan dal sole?
Pur cosí dotto magistero a nulla
giovar potrebbe se d’alpestri massi,
e di non abitate ispide terre,
360fossero que’ pianeti un’aspra mole.
Dimmi: che fan le quattro lune intorno
al vastissimo Giove, e le altre cinque
rischiaratrici del lento Saturno
col sottil giro del capace anello,
365ond’egli va superbo? Invan Natura
nulla creò, né della cheta notte
ad ingemmar soltanto il fosco velo
d’immensa mole fe’ pianeti, e mille
nel liquido seren lampade accese,
370e il corso volle armonizzarne e l’ore.
Luce maggior di veritá foriera
meco sul grave ragionar ti spanda
il fiorentin che a’ non tentati cieli
coll’ottica sua canna assalto diede,
375e nella notte ne spiò gli arcani.
A gara dopo lui cento salîro
d’Urania figli all’ardue torri in vetta,
e d’argolico scudo o di febèa

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lampada in guisa sollevar fûr visti
380sferiche moli di cristallo e tubi,
che avidamente si stendean nell’ombre
ad indagar colla rifratta luce
degli attoniti cieli ogni segreto.
Io poi, del vario-refrangibil lume
385l’indocile a frenar indole intento,
in concavo metal l’accolsi in pria,
e d’altro specchio il rimandai sul cavo
minor circolo opposto, onde riflessa
n’andò de’ rai la colorata riga
390all’occhio armato di globosa lente,
e men confusa e piú vivace apparve
la fida imago dell’esterno obbietto.
     Tu, di questo o del primo ottico tubo
avvalorando il curioso sguardo,
395allorché mezza della propria notte
tace nell’ombre la volubil terra,
veglia fra’ merli di solinga torre,
e le stellanti chiostre al guardo appressa.
Ma pria, novello Endimione, il volto
400fiso contempla della bianca Luna,
che quale a lui nell’amorose grotte
della Iatmia pendice, a te di furto
par che s’accosti per l’aria serena,
e al cupid’occhio la lucente ampiezza
405fa grandeggiar del maculato disco.
Oh! quai di cavernose orride valli
e di pianure e d’isole prospetti
t’offre il pianeta regnator dell’ombre!
Le decrescenti sparse macchie e l’aspre
410ad ora ad ora lumeggiate parti
son valli e monti, son lagune e mari,
d’isole sparsi e di minuti scogli,
che d’apollineo raggio in varie guise
riflettono allo sguardo; e tal darebbe

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415spettacolo giocondo il suol che calchi,
se tu dall’orbe dell’argentea luna
mirar potessi quanto apre e circonda
da Calpe profanata all’Adria estremo
il doppio mar, campo de’ venti, e in mille
420contrade l’Appennino arduo comparte. —
     Ma mentre ei si favella, inver’l’occaso,
oltrepassata la metá del giro,
volge sul polo aquilonar l’Europa,
e l’Appennin di piú lunga ombra il piano
425stampa d’Emilia colle negre spalle.
Giá del bianco mantil vestito, il desco
grato fumeggia di vivande. Invito
piú che non l’epa dal digiuno asciutta
fa del valletto vigile la cura,
430e me dal lungo meditar richiama.
Ma, qual fumo alle lievi aure commisto,
rapida al suon della profana voce
del filosofo l’ombra si dilegua,
e i mirti consapevoli e gli allori
435a bear torna dell’aurito Eliso.