Piccoli eroi/Lettera di Angiola alla signora Merli
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LETTERA DI ANGIOLA ALLA SIGNORA MERLI.
- Cara mamma.
Come sei stata buona a lasciarmi venire in campagna colla signora Morandi! Quanto mi diverto! E quante cose avrò da raccontarti al mio ritorno.
Da tre giorni siamo in piena baldoria, c’è la fiera in paese e ci siamo dati tutti alla pazza gioia.
Però oggi la signorina Maria volle che si rimanesse in casa a raccogliere le nostre idee, e per non restare oziosi ci disse di scrivere le nostre impressioni sulla fiera del paese.
È una specie di gara, per vedere chi di noi scrive meglio, e questa sera il professar Damiati giudicherà, e classificherà i nostri componimenti.
Io approfitto subito di questa giornata di tranquillità, e sono felice di aver tempo di scriverti; ma Carlo quando seppe che oggi si stava a casa, ha fatto il muso, l’Elisa andò di malavoglia a prendere i suoi quaderni, e sento Mario, nella stanza vicina, irrequieto, che s’alza ogni momento per correre alla finestra ad ogni più piccolo rumore che vien dalla strada.
— Ma mi accorgo che anche la mia signora figlia si perde in divagazioni inutili, — mi par di sentirti dire.
Hai ragione, mammina mia, ed ecco che torno all’argomento.
T’assicuro che la vita di questi giorni pare un sogno. Il nostro villaggio non è più riconoscibile.
Nella piazza quasi sempre spopolata e tranquilla, tanto che quando passavamo per andare alla messa o alla posta, non s’incontrava che qualche donna colle secchie la quale andava ad attingere l’acqua alla fontana, o qualche contadino colla gerla sulle spalle, c’è un frastuono indiavolato, intorno alla chiesa sono collocati dei banchi colle tende bianche, e sui banchi una quantità di oggetti variopinti e luccicanti, che si vendono per quarantanove centesimi, e una folla di contadine vestite da festa, alcune venute dalle montagne, nei loro costumi tradizionali, colle camicette bianche ricamate, i corpetti di velluto, la vita corta, e le vesti di panno con bordure rosse, che guardano cogli occhi meravigliati, tutta quella roba, incerte su quello che devono comperare; poi banchi pieni di dolci e frutta, e in terra mucchi di stoffe variopinte, poi delle altre distese sui muri, e i venditori che gridano da assordare, e una folla che non lascia passare se non a forza di spintoni.
La parte più interessante dello spettacolo è sul prato dietro la chiesa, dove c’è una giostra che è il gran divertimento dei ragazzi, poi il teatro delle scimmie, che mi ha tanto divertito, ed è molto buffo. Pensa, delle scimmie vestite da gran dame, coi cappellini piumati, e i vestiti guarniti di gale, che fanno delle scene buffe e graziose.
Ce n’è una che mi piace tanto; si mette il cappellino davanti allo specchio, come si potrebbe far noi, si guarda con compiacenza, poi quando un’altra scimmia vestita da cameriera, le dice che la carrozza è pronta, sale in carrozza, — una carrozzella colle ruote dorate, e tirata da due cani bardati con molta eleganza, — si sdraia, sui cuscini con grande sussiego, tenendo colla mano l’occhialino, e di tanto in tanto facendosi vento con un gran ventaglio.
Il cocchiere e lo staffiere sono due scimmie vestite di azzurro, coi cappelli a cilindro, coi galloni d’oro, e anch’esse stanno sedute a cassetta, così impettite e serie come la loro padrona.
Quando la carrozza ha fatta due o tre giri sul palcoscenico, la signora scende, e si fa portare da mangiare; pare che le vivande non siano di suo aggradimento, perchè va sulle furie, e getta il piatto in faccia al cameriere, e irritata sbattendo il ventaglio, salta in carrozza, e via senza salutare nessuno. Se sapessi quanto ci ha fatto ridere! ti assicuro che non ne potevo più.
Fuori, sul prato, abbiamo assistito ad un altro spettacolo. Una compagnia di saltimbanchi avea steso un tappeto, tirata una corda, e facevano salti ed esercizii ginnastici.
C’era una bimba, tanto carina, che l’avrei mangiata coi baci. Avea una bella faccia bianca, coi capelli biondi come l’oro, e degli occhi dolci e buoni, tanto che mi pareva, una piccola fata; essa mi faceva compassione così vestita, succinta con un piccolo gonnellino a pagliuzze d’argento. Ballava sulla corda con molta grazia, e tutti andavano pazzi per lei; però anch’essa si diverte, ed è tutta felice quando le battono le mani.
La chiamano polentina, e il pubblico non è mai sazio di vederla, tanto che quando ha terminato i suoi giochi, si sente gridare da tutte le parti:
— Ancora, ancora, Polentina, — e lei, quantunque stanca, e rossa infocata, riprende i suoi esercizii allegra e sorridente.
Benchè essa sembri contenta della sua sorte, io la compiango; e quando ho veduto la sua casa, ho pensato quanto io sia felice d’avere una mamma come te, che pensa a farmi star bene, e degli amici come i Morandi che mi fanno tanto divertire.
Se vedessi la casa di Polentina!
È un carro coperto di tela, dove dorme assieme al suo babbo, che suona la gran cassa; alla sua mamma, che dice la buona ventura, vestita da zingara, e ad uno scimmiotto.
In quel carro dormono, fanno da mangiare, e si portano da un paese all’altro, dove vanno a ripetere sempre i medesimi giuochi.
Povera gente! Eppure non si mostrano malcontenti della loro sorte.
Mi sono anche molto divertita a vedere la cuccagna, ch’era una cosa nuova per me.
Tu, sai già di che cosa si tratta: è un albero alto alto, liscio, dove in cima sono attaccate tante buone e belle cose, che i contadini devono conquistare, arrampicandosi lassù, a furia di braccia e di ginocchi, ciò che riesce abbastanza difficile, perchè quell’antenna è tutta insaponata e sdrucciolevole.
Se avessi veduto quanti ragazzi tentavano quella salita, e poi non erano ancora a mezza strada che scendevano giù sdruccioloni, fra le risate e i motteggi di tutta la popolazione.
Finalmente, dopo molti tentativi inutili, uno riuscì ad arrivare in cima, poi un altro, poi un altro ancora. Bisognava sentire che applausi e che grida da tutte le parti!
Come erano contenti quei ragazzi, che scendevano carichi dei trofei della vittoria.
Erano polli, salsicciotti, sciarpe colorate, e anche dei borsellini con qualche moneta.
Don Vincenzo, ch’era vicino a noi, e che se la godeva come un bambino, diceva che in questo gioco c’è la sua moralità: prima è un esercizio ginnastico, poi mostra che non si giunge alla meta senza fatica.
Più tardi, ci dovevano essere i fuochi d’artifizio; i ragazzi volevano aspettarli, ma la signorina Maria non volle, perchè dice che di notte, in mezzo alla folla, sono pericolosi; una volta essa vide un fanciullo sfigurato, per esser stato colto da un razzo in mezzo alla faccia; dunque non metteva conto per un piccolo divertimento, esporsi ad un pericolo anche lontano, ed ho trovato che aveva ragione.
Se sapessi che buona ragazza, è la signorina Maria! Ho imparato da lei tante cose, in questi pochi giorni, più che se fossi andata a scuola; essa sa tutto: sa curare gli ammalati, fasciare le ferite, fa dei buoni dolci, e poi ha scritto dei racconti, che ci legge qualche volta, ed è per me una vera festa il sentirli.
Se una buona fata mi domandasse di esprimere un desiderio, ti assicuro che non chiederei, come farebbe l’Elisa, gli equipaggi e i vestiti eleganti della signorina Guerini, nè di essere un famoso pittore, come vorrebbe Mario, o un eroe come Carlo; ma le chiederei di farmi rassomigliare a Maria.
Spero che quando saranno ritornati in città, mi lascerai andar spesso in casa Morandi; sarà il mio più grande divertimento, ed io studierò, e sarò buona per meritarmelo.
Addio, mammina, abbraccia il babbo, e sta sicura che per quanto io mi trovi qui assai bene, pure sono impaziente di abbracciarti.
La tua Angiolina.
P.S. Prima di spedirti la lettera ti racconto l’esito della nostra gara.
Alla presenza del professore Damiati si diede lettura dei nostri scritti.
Quello di Vittorio, e quello della tua figlia furono giudicati i migliori.
Carlo ed Elisa erano troppo distratti per poter far bene.
Mario mostrò un foglio di disegni che fecero rider tutti.
Rappresentavano il teatro delle scimmie, e le scimmie eravamo noi: Elisa che voleva imitare la signorina Guerini, Carlo il ragazzo Guerini, io la Maria, la Giannina volea imitar me; insomma tutti scimmie, e sopra scrisse: Impressioni della fiera.
Veramente nel programma non c’era un cómpito di disegno, ma si rise e glielo hanno passato per buono.
Mi sono dimenticata nella mia descrizione di parlarti di un ciarlatano che ci fece molto divertire, e siccome Vittorio lo descrisse nel suo componimento, così te lo mando perchè tu ti possa formare un’idea esatta del modo con cui abbiamo passato questi giorni. Addio, e un bel bacio.