Per la storia della cultura italiana in Rumania/II. Pietro Metastasio e i poeti Văcărești/2. Il Metastasio ed i poeti Văcărești - Le canzonette

../1. Il settecento rumeno e la poesia pastorale

../3. I melodrammi IncludiIntestazione 15 settembre 2021 100% Da definire

II. Pietro Metastasio e i poeti Văcărești - 1. Il settecento rumeno e la poesia pastorale II. Pietro Metastasio e i poeti Văcărești - 3. I melodrammi
[p. 222 modifica]

2. Il Metastasio ed i poeti Văcărești — Le canzonette.

Fra „gl’insipidi frutti della scuola classica che dava gli ultimi tratti”1 e che, secondo il Ionnescu-Gion2, „rappresentava quanto di meglio poteva gustarsi da quella generazione dal sangue annacquato”, che visse in Rumania ai tempi dei Fanarioti; l’illustre storico della città di Bucarest non intende comprender nè le canzonette, nè, tanto meno, i drammi del Metastasio. Allude chiaramente alle romanze francesi, che facevan la delizia de’ boiardi rumeni della seconda metà del secolo XVIII, e se, quando parla di „scritti dolciastri, flaccidi, uniformi che oggi „fin dalla seconda pagina cominciano a pesarvi (come un incubo) sul cuore”3, è lecito vedere un’allusione agl’Idillii del Gessner4; è certo che nella medesima condamna non coinvolge, [p. 223 modifica] facendo d’ogni erba fascio, anche gli scritti del più dolce e più melodioso poeta d’Italia.

Del resto la voga del Metastasio in Rumania fu non solo tardiva, ma persino minore di quella del Florian e del Gessner. Malgrado infatti fin dal 1779 esistesse una traduzione greca in due volumi dei Melodrammi e qualche altra ne circolasse anche prima manoscritta; ci bisogna arrivare fino al 1783, quando Ienăchiță Văcărescu si recò a Vienna ambasciadore presso la Sacra Cesarea Maestà di Giuseppe II, per veder la fama del Metastasio definitivamente acclimatata in Rumania. Egli era, come è noto, mancato ai vivi l’anno prima (1782) e la sua morte aveva commosso il mondo intero: da Vienna ai mulatti dell’isola di San Salvador, che ne recitavano i drammi5; dall’Italia all’Inghilterra, dove l’italiano s’imparava sulle ariette de’ suoi melodrammi; da Parigi, dove, non molti anni dopo, il Goldoni lo faceva leggere alle sorelle del Re, alla Rumania, dove il Văcărescu, proemiando alla sua Grammatica (1783), lo chiama „il giudiziosissimo Metastasio, ricco di dottrina e anche più di nativa arguzia, a proposito del quale oso affermare, che non egli della poesia italiana, ma la poesia italiana di lui s’è adornata”6. Parole siffatte, così superlativamente laudative, e [p. 224 modifica]tali, nello stesso tempo, da non dar dubitare della sincerità di chi le scriveva, ci mostran chiaramente il Văcărescu sotto l’impressione di quella morte avvenuta di recente e che, come abbiam detto, aveva commosso il mondo, rinfocolando entusiasmi che, lentamente, col mutar degli eventi e delle condizioni politiche e sociali dell’Europa, s’erano venuti, negli ultimi tempi, di giorno in giorno raffreddando. Gli anni più belli per la fama del Metastasio in Rumania, vanno perciò dalla morte di lui (1782) a quella del Văcărescu, avvenuta prima dello spuntar del nuovo secolo (1799), e a questo periodo vanno assegnate le traduzioni, che Alexandru Beldiman7 e Iordache Slătineanu8 fecero rispettivamente a Iassy e a Sibiiu (il 1784 e il 1798) della Clemenza di Tito e dell’Achille in Sciro.

Verso il principio dell’ottocento comincia dunque la decadenta di quell’effimera voga, che il più internazionale — sarei per dire — dei poeti italiani, si ebbe, grazie soprattutto alla simpatia che per lui nutrì il Văcărescu, ne’ due Principati di Valacchia e di Moldavia. Intorno al 1818-20 sappiamo— è vero— che Ioan Budai-Deleanu aveva incominciato a tradurre l’Attilio Regolo e che Ștefan Crișan (Körösi), morto certamente prima del 1820, aveva „molto tradotto” dalle opere del Metastasio; ma la traduzione del Regolo di Budai-Deleanu non andò oltre le prime scene e di quelle del Crișan nulla sappiamo all’infuori della magra notizia, che ne ha lasciato Vasile Popp9 nella sua [p. 225 modifica]prefazione all’ormai rarissimo Salterio in versi del Pralea10. Dati poi gl’intenti patriottici e politici, coi quali, intorno al 1836, sorse il teatro in Rumania11, è chiaro che non ci sarà da fare alcuna meraviglia, se al Metastasio troveremo ben presto sostituito l’Alfieri, sì da non poter qui registrare che una sola recita della Didone (a Iași il 1833 per opera di giovani dilettanti italiani) e una (molto problematica) del Catone in Utica (1835).

Se a questa messe non certo abbondante, aggiungeremo: una traduzione (dal francese di Rousseau) della Libertà, dovuta all’Alexandrescu (1847), qualche citazione (e non sempre in italiano) di versi e strofette metastasiane in Aristia (1829 e 1843) e Negruzzi (1808-1868); ne avremo abbastanza per conchiudere che il Metastasio, almeno per ciò che riguarda la Rumania, meritava una fortuna ben maggiore, anche perchè la capricciosa e volubile dea, che gli aveva giocato il tiro di procurargli una traduzione a stampa dell’Achille in Sciro, incrudelì facendogli restare inedita la traduzione del Beldiman (della Clemenza di Tito), disperdendo quelle del Crișan, e togliendo la voglia di proseguire a Budai-Deleanu, che pur con tanto entusiasmo aveva incominciato la traduzione del Regolo!

Ma sarà tempo di veder le cose un po’ più da vicino.

Ienăchiță Văcărescu, malgrado l’entusiasmo che nella Prefazione alla sua Grammatica mostra professare per l’autore della Didone e del Regolo, fece in fondo

come quei, che va di notte.
Che porta il lume dietro, e sè non giova,
Ma, dopo sè fa le persone dotte.12

Non a lui, che s’ispirò di preferenza alle fresche sorgenti della poesia popolare, e ai vecchi metri si tenne sempre stretto; ma [p. 226 modifica]a suo nipote Jancu Văcărescu gioverà la poesia del Metastasio, quando „all’antica cadenza religiosamente conservata” vorrà innestare il profumato fior della rima13. Sia infatti che [p. 227 modifica]Ienachiță canti la sua bella e l’assimigli a un canarino (Tu ești puișor canar) che si nutre solo di zucchero, sia che „într’o grădină” vegga un fiore che non sa se cogliere o lasciare, perchè, nel primo caso, ha paura di guastarlo, nel secondo che lo colga un altro; sia che tenti chiuder nella cornice dorata del verso una sentenza morale, ch’è la maggior parte delle volte niente più che un semplice dettato del buon senso; io non riesco a vedere in tutto ciò alcun influsso italiano, mentre, per ciò che riguarda la poesia del giardino e del fiore, è chiara invece l’influenza d’una poesiola del Goethe. Ciò posto, sarà però da osservare:

1. che le poesie sicuramente di Ienăchiță Văcărescu son unicamente quelle ch’egli introduce come esempi in quella specie di rudimentale Arte poetica, che si trova a guisa d’Appendice in fine della sua Grammatica;

2. che parecchi di questi esempi appaiono composti manifestamente lì per lì, al solo scopo di mostrare la regola applicata, tant’è vero che l’autore non si scomoda neppure a cercare un argomento più o meno poetico, ma, senza uscire dal campo didattico e grammaticale, mette in versi delle pure e semplici definizioni; [p. 228 modifica]

3. che manifestamente il Văcărescu scrisse altre poesie all’infuori dei poveri saggi riportati come esempi nella Grammatica;

4. che tra le poesie ancora inedite contenute nei citati mss. miscellanei dell’Accademia Rumena è generale opinione se ne trovino anche parecchie di Ienăchiță;

5. che Ienăchiță conosceva benissimo l’italiano.

Per quanto dunque, allo stato presente delle cose, tra le poesie che possono con sicurezza attribuirsi a lui, non ci risulti alcuna influenza metastasiana; potrebbe ben darsi che, messo un po’ d’ordine in quella farragine di fogli e di fogliuzzi multicolori che contengono indiviso il patrimonio poetico dei Văcărești, l’influenza metastasiana saltasse un bel giorno agli occhi, com’è saltata di recente quella goethiana.14 Per ora contentiamoci di dar qualche notizia della vita di codesto sfegatato ammiratore del nostro poeta e d’indagare quali conoscenze avesse della nostra lingua e, poichè insieme col Metastasio cita anche il Petrarca, il Tasso e l’Ariosto (diciamo pure le gros mot, ma il lettore non si faccia troppe illusioni), della nostra letteratura.

Da Ștefan Văcărescu, Vornic di Târgoviște e più tardi Grande Spătar e dalla bellissima Catinca Donea nacque intorno al 1740 il nostro Ienăchiță. Apparteneva a una famiglia, in cui l’amore del sapere e le virtù cittadine erano per così dire ereditarie, sicchè non è meraviglia se la sua educazione fosse, come ci fa sapere l’Odobescu, „accuratissima fin dai primi anni”15. Un tal Neofit Kausocolivit gli aperse i tesori della lingua, della retorica e della storia greca; „un tedesco, per nome Weber, gli spiegò le regole della lingua latina; altri professori gl’insegnaron l’italiano e il francese; gli hogi turchi lo familiarizzarono colla lingua e la letteratura ottomana, che negli ultimi anni conosceva a fondo”16. La conoscenza di tutte queste lingue [p. 229 modifica]in un rumeno del secolo XVIII non può farci alcuna maraviglia. La Moldavia era in quel secolo, per servirci dell’espressione del Körnbach17, „il paese dei poliglotti”, e basterà pensare a quel Niculae Milescu18 che, oltre il greco moderno, l’italiano e il francese, conosceva a perfezione anche l’inglese, il tedesco, il russo, e persino il chinese, per concludere, che, dicendo così, il Körnbach non esagerava nè punto nè poco. Ma, per tornare al nostro Văcărescu, la conoscenza ch’egli aveva della nostra lingua risulta da ben altro, che dalla semplice affermazione dell’Odobescu, che avesse avuto da giovane maestri d’italiano. A non parlare delle Osservazioni sulle regole della grammatica rumena, i cui modelli secondo il Șaineanu19 doverono essere italiani, e di una poesiola di movenze popolari, che non sarebbe strano gli fosse ispirata da un madrigale di Panfilo Sassi20; due [p. 230 modifica] questioni sulle quali non è facile il pronunziarsi; sappiamo da una lunga lettera di Ienăchiță pubblicata dall’Odobescu, come nel maggio 1773, trovandosi a Brașov ed essendo presentato a Giuseppe II, egli facesse „dragomanlik boierilor in limba talienească”21, il che val quanto dire che funzionò da interprete fra i boieri rumeni e l’imperatore, parlando in italiano22. [p. 231 modifica]Dell’italiano similmente si servì in un’altra men piacevole circostanza per comunicare col feldmaresciallo Rumiantzoff, che lo aveva fatto prigioniero, mentre andava a Focșani dove stava per riunirsi il congresso (o, come diremmo oggi la Conferenza) per la pace fra Russia e Turchia, allora (1770) in guerra per il possesso appunto de’ principati di Valachia e di Moldavia. Malgrado dunque il Văcărescu, munito del suo bravo passaporto austriaco, si recasse a Focșani dal Gran Visir per una missione diplomatica (ad esporgli cioè i bisogni del paese, dei quali i boiardi desideravan si tenesse conto nella stipulazione della pace, che poi non si fece se non il 1774); il maresciallo russo non volle sentir ragioni, e, fattolo per intanto arrestare, „lo tenne diciotto giorni tra le tende del suo accampamento, esposto alla canicola” e colla paura in corpo di esser da un momento all’altro sbalestrato chi sa dove in esilio. Fu allora, che, volendo uscire a ogni costo da una così spiacevole situazione, Ienachiță pensò, com’egli stesso ci racconta nella sua Istoria împerăției otomane (pp. 168-171), di scrivere al generale Rumiantzoff una lettera in italiano, il cui testo purtroppo non possediamo più, ma che, anche nella traduzione rumena in cui il Văcărescu ce la tramanda, ha qualche interesse per noi, dati i numerosi italianismi, dei quali l’ha addirittura infarcita.

Poi che ci sembra che ne valga la pena, la riportiamo qui per intero, stampando in corsivo (si vegga il testo in nota) le parole che rappresentano i più gravi e direi quasi scandalosi italianismi:

„Eccellenza, signore e padron mio. Poi che la sorte e il mio destino han pur voluto far di me, uomo inerme (e in tempo di tregua) un prigioniero delle apportatrici questa volta di vittoria, armi russe; mentre ero pur munito di passaporto con Cesarea protezione, per la sola colpa di serbar fede, come di dovere, ai padroni che Dio mi ha dato; sono in tutto riconoscente al caso e al destino che un siffatto specialissimo onore han pur voluto procacciarmi, onde non rivolgo all’Eccellenza vostra altra preghiera se non di venir spedito qualche ora [p. 232 modifica] prima colà dove si trovano anche gli altri presi prigionieri in guerra e colle armi alla mano, del qual beneficio Le resterò obbligatissimo, protestandomi, ecc.”23

Intorno alla strana lingua, in cui questa lettera è scritta, l’Odobescu non manca di osservare, che in essa „appar l’influenza delle „diverse lingue che egli conosceva. I nomi delle cariche e persino alcune frasi turche delle più comuni figurano accanto a parole derivate dalla lingua italiana e scritte anzi dall’autore proprio come si pronunziano in quest’ultima”24.

Ma A. Papiu Ilarian25 non si contenta di rilevare freddamente come l’Odobescu le tracce che la conoscenza della lingua italiana ha lasciato nello stile rumeno del Văcărescu: egli è addirittura fuor di sè dalla gioia per aver trovato nel Văcărescu un predecessore così antico della teoria latinista della lingua. A dir vero, lo stile del Văcărescu prelude piuttosto a quello che dopo il 1840 ebbe la pessima idea di adottare Heliade-Rădulescu, che non a quello dei latinisti puri; con tutto ciò, la soddisfazione e il compiacimento che Papiu Ilarian manifesta nel rilevar gl’italianismi del Văcărescu, hanno la loro importanza in quanto valgono a dimostrare quanto breve fosse il passo dal latinismo di Transilvania all’italianismo di Heliade e come anzi, a cominciare da Miron Costin, si sia fatta una curiosa confusione fra [p. 233 modifica] latino e italiano, della quale qualche entusiasta della lingua e della letteratura italiana non ha mancato di approfittare, volgendo per qualche tempo a profitto dell’Italia delle simpatie che legittimamente s’indirizzavano a Roma.

Ma stiamo a sentir le gustose osservazioni di Papiu Ilarian sullo stile e la lingua del Văcărescu: „La conoscenza della lingua italiana, lo aiuta a crear come si deve le parole nuove che adopera. In uno scritto del secolo passato ci piace legger parole e forme come le seguenti: refugiu (rum. adăpost) e salvezza; successorii (rum. moștenitori, urmași) di Maometto; conditione (rum. condiție, stare); protetione (rum. ocrotire) rebelionea (rum. răzvrătire) degli Giannizzeri; perciò răpi (rum. luă) questa occasione (rum. ocazie) con maggior favore (rum. favoare); eroe (rum. erou); mediatore (rum. mijlocitor); accomodamentu (rum. aranjament); garante (rum. chezaș) della pace; asaltu (rum. năvălire); nobleție (rum. boerime, ma qui com’è chiaro non è in giuoco l’italiano, bensì il francese); politetia (rum. gingășie, ma anche qui è dal francese che il Văcărescu ha preso le mosse e del resto è parola entrata definitivamente nella lingua con tanti altri francesismi anche più crudi); forța (rum. tărie); consiliulu (rum. consfătuire) di ministri; sterna (rum. pecetea); imperiului (rum. împărăției) dei Romani, e dichierară (= dichiararono; rum. declarară) Tekel Signore, si impatroniră (= impadronirono; rum. cuceriră, cotropiră) i Russi della Moldavia”26.

Poi che gli esempi son tolti dalla Storia dell’Impero ottomano, è lecito argomentare che i frequenti italianismi fossero (con qualche francesismo e non rari turchismi) una vera e propria caratteristica dello stile del Văcărescu. Se non che le parole tolte a imprestito dal turco si spiegano assai più facilmente di quelle di origine italiana, in quanto le prime stanno a indicare [p. 234 modifica] per la maggior parte cariche ufficiali, distintivi onorifici, oggetti riferentisi a usi introdotti da’ Turchi e costituiscono una specie di gergo burocratico comune sì al Văcărescu che ad altri scrittori del tempo, mentre italianismi crudi, come p. es. favore, dicherară, impatroniră non ci avverrà di trovarli neppure in quella specie d’italo-rumeno, in cui, dopo il 1840, scrisse il più fanatico degli italianisti rumeni. La cosa è tanto strana, che il solo fatto della conoscenza dell’italiano da parte del Văcărescu non basta a spiegarla; onde io sospetto che i brani nei quali quelle parole si trovano sien tradotti, e tradotti dall’italiano, tanto più che ai tempi del Văcărescu le opere del Giovio27, del Sansovino28 e del Cambini29 riguardanti la storia dell’Impero ottomano dovevano già da qualche tempo esser penetrate in Rumania. È tutt’altro che improbabile che. il Văcărescu siasi servito per la sua Storia dell’Impero ottomano di fonti italiane; ad ogni modo, poi che a me non è riuscito accertarlo, dò la cosa come semplice sospetto, pronto a chiederne scusa al Văcărescu, se qualcuno dimostrerà trattarsi d’un giudizio temerario30. La [p. 235 modifica] colpa è un po’ anche dello Șaineanu31, che, sospettando di origini italiane la Grammatica, che, dopo tutto, è scritta in uno stile assai più ortodosso, ha spinto me a sospettar della Storia, i cui italianismi son troppo crudi, perchè io li arrivi a digerire. Comunque sia di ciò, e giacchè abbiamo accennato a qualche cognizione che il Văcărescu aveva della letteratura italiana, eccoci a soddisfare la giusta curiosità del lettore. Il quale, questa volta almeno, dovrà contentarsi di ben poco, poi che il passo, cui ci riferiamo, non contiene che degli spropositi alquanto madornali intorno alla metrica italiana e la citazione honoris causa del Petrarca, del Tasso e dell’Ariosto, i quattro poeti meno uno: Dante, la cui fama nei secoli XVII e XVIII languì del resto anche in Italia ed è poi tal poeta che anch’oggi trova fra gli stranieri assai più ammiratori scansafatiche che studiosi e lettori. Rilevando dunque la differenza tra la poesia rumena (basata sul numero dei piedi) e quella italiana (che conta invece le sillabe), il Văcărescu osserva:

„La lingua italiana non è usa a scandire i versi secondo il numero dei piedi, ma solo secondo il numero delle sillabe e con molta varietà di tipi. Alcuni versi sono di sei, altri di otto, [p. 236 modifica] altri anche di dodici e persino di quindici sillabe. Tutto ciò con una speciale inflessione di pronunzia, con un flusso solo, con riscontro di sillabe alla fine (la rima!) e pensieri sublimi, come p. es. sono, fra quelli di molti altri autori, i versi del Tasso, dell’Ariosto, del Petrarca e quelli del giudiziosissimo Metastasio ricco di dottrina e anche più di nativa arguzia”32

Versi di dodici sillabe, e, peggio, di quindici non ce ne sono davvero in italiano, e, verosimilmente, si tratterà di endecasillabi male scanditi dal Văcărescu, abituato, nei versi rumeni, a non tener conto delle elisioni, onde è chiaro che un semplice endecasillabo poteva apparirgli di 12 e persino di 15 sillabe.

Quanto al Tasso, all’Ariosto e al Petrarca, confessiamo che l’aver accennato alle „mari gândiri”33 che si riscontrano nelle loro rime non basta a compensarci dell’ordine cronologico invertito e soprattutto della preferenza data su tutti al Metastasio, mentre in disparte la maschia figura di Dante, tutta chiusa in un dignitoso „dispitto”, pare chiederci vendetta del rumeno che ignora la magnifica apoteosi ch’egli ha due volte fatta di Trajano; ma... non avevamo forse avvertito il lettore di non farsi illusioni?

Pensiamo ai tempi, nei quali scriveva il Văcărescu, alle prime opere tradotte dall’italiano in rumeno, al Bertoldo34 più fortunato della Comedia, agli Scherzi di fantasia35 del Loredano [p. 237 modifica] che trovarono in Rumania un traduttore che i Sepolcri del Foscolo non trovarono mai; alle Donne brutte del Ghislanzoni36, che usurpano anch’oggi il loco dei Promessi Sposi; e riconosciamo al Văcărescu il merito d’essere stato il primo in Rumania a saper qualcosa di letteratura italiana ed a conoscerne e ammirarne (dopo averlo letto) un poeta. In verità, in verità vi dico che molti fra gli stranieri che oggi s’entusiasmano a freddo al solo nome di Dante e di Petrarca non ne sanno in coscienza più di lui!

Ma suo nipote Iancu Văcărescu (1786-1863) ha tutta una sezione di Canzonette nel suo volume di Poesie37, dove non mancano neppure i sonetti. Di queste Canzonette due (Bacchie e Respuns) son tradotte dal francese di Gentil38, sei (Uitarea ’n veci, Cenușăreasa, Amarul, Plina de daruri, Ce ’mi zici remâi sănătos, Dorul) portano tra parentesi l’indicazione: traducere, senza dir da chi, una (Plecarea) è data apertamente come tradotta dal Metastasio. È la quinta tra le canzonette del nostro, ed è intitolata anche in italiano La Partenza. Comincia:

Ecco quel fiero istante;
     Nice, mia Nice addio.
     Come vivrò, ben mio.
     Così lontan da te?

Nella traduzione Iancu Văcărescu si è fatto un dovere di serbar l’ordine delle rime e persino, quasi sempre, gli accenti del settenario: [p. 238 modifica]

plecarea

(de Metastasie).


Iat’a sosit minutu
Amar ce ne desparte
De Nina mea departe,
Cum voiu putea trăi?
Eu voiu trăi in chinurĭ,
In lacrămĭ șì ’n suspinurĭ,
Și tu, ori cine știe
De m’eĭ maĭ pomenĭ !

Cu voia ’ți fie ’ncailea,
Când gându ’mi e dupa tine
Perdut’am pace, bine
Per urma ’ți a găsi.
Aproape ’ți tot pe cale
Voiu fi cuprins de jale,
Și tu ori cine știe
De ’m’ei mal pomeni!

Spre depărtate țărmuri
Pășind cu întristare
Stânc39 ’oiu s’intreb ori care:
Ori Nimfa ’mi unde o fi?
Te voiu chiema de față
Cu ori ce dimineață
Si tu ori cine știe
De ’m’ei mal pomeni!

Eu voiu vedea adesea
Văi, câmpuri, munți, grădine,
Unde trăiam cu tine
Ferice ori ce zi.
Câte aminți aduse
O s’am pedepsi nespuse:
Și tu ori cine știe
De ’m’ei mai pomeni !

Iat’, oiu să zic, fântâne!
Unde ’n necaz s’aprinde
Mâna ’t apoiu ’si o ’ntinde
Al păcii dar aci:
Nădejde aici ne e hrană,
Ici țemem40 tot d’o rană;
Si tu, ori cine știe
De ’m’ei mal pomeni!

[p. 239 modifica]

La traduzione è proprio il contrario d’una traduzione fedele. Tutto quanto c’è nella canzonetta del Metastasio di polito, di semplice, di elegante, di musicalmente perfetto, scompare nella traduzione, dove per giunta assai spesso il testo italiano è frainteso o non inteso affatto. Fra le più malconce, noteremo la seconda e la quinta strofe, che in rumeno riescono addirittura incomprensibili. Ma anche altrove incontriamo amplificazioni e zeppe e mutilazioni che ora ci fan pensare a civili costumi guerreschi d’arabi tripolini, ora (curioso contrasto!) al miracolo evangelico dei pani e dei pesci! La bella mano di Nice data al poeta in segno di pace presso la fontana medesima „dove avvampò di sdegno”, diventa una qualunque mano stesa in segno di pace, anzi come dono di pace. Quella bella mano, che, preposta al verbo

(Ma poi di pace in pegno
La bella man mi diè),


valeva un tesoro, anzi più di qualsiasi tesoro, perde nella traduzione rumena ogni pregio, anche quello della „bellezza”! Per contrario le amene piagge della 4-a strofe si moltiplicano miracolosamente in: văi, câmpuri, munți, grădini (valli, pianure, monti e giardini)41. E così di seguito, chè non è mia intenzione incrudelire contro il poeta rumeno, tanto più che anche questo suo tentativo di traduzione dall’italiano ci mostra (come gli altri da altre lingue) „con quante difficoltà avesse a lottare chiunque, a que’ tempi volesse arricchire la letteratura rumena, sia di scritti originali, sia di traduzioni dagli autori stranieri”42. Questa giusta considerazione che il Dragomirescu e l’Adamescu fanno a proposito della traduzione del Britannicus di Racine fatta dal Văcărescu intorno al 1827, può valere infatti benissimo anche per la traduzione della canzonetta metastasiana, se non che questa volta, accanto alla „tendenza decisa di dare alla lingua rumena i molteplici atteggiamenti e la svariata [p. 240 modifica]conformazione fraseologica caratteristica delle lingue classiche e specialmente della greca”43, che avrà contribuito senza dubbio a rendere questa traduzione dal Metastasio non meno „grave e confusa” di quella del Britannico; sarà da ammettere anche un po’ di ignoranza44 d’italiano, o di inintelligenza45 del testo, come appar chiaro anche a un superficiale osservatore. Probabilmente Iancu sapeva d’italiano assai meno di Ienăchiță, e non sarebbe stato al caso nè di far nella lingua di Dante „dragomanlik boierilor” nè, tanto meno, di scrivere in italiano una lettera, sia pure ad un maresciallo... russo; ma, pur sapendone meno, ha il merito di averne saputo trarre maggior profitto. Lasciamo andare i non pochi sonetti, e le numerose „canțonete“ che troviamo tra le sue rime; donde, se non dal Metastasio, gli sarà venuta la facilità melodica e la trasparente chiarezza di quella Primăvara Amorului, che, anche per certi ingredienti di „fauni”, di „silvani”, di „zefiri”, di „rose”, di „stelle” e di „pastori”, tradisce l’influsso, se non proprio del Metastasio, dell’Arcadia italiana?46.

Iancu Văcărescu — ci fa sapere il Iorga47 — era stato „a Pisa, e prima a Vienna, dove l’abate italiano era sempre stato un autore prediletto”. Chi sa che a Pisa il Metastasio non avesse, come il Goldoni, assistito a qualche tornata della Colonia Alfea?48. [p. 241 modifica]

Conchiudendo, che nel Metastasio, Iancu Văcărescu trovasse, come vorrebbe il Iorga, „il suo modello”, non sarò io certo ad affermare. Tra le sue canzonette ce ne son due sicuramente tradotte dal francese49 una ballata50 è tradotta dal Goethe, altre poesie risentono, com’è naturale, del genere neo-anacreontico in gran voga in quei tempi così in Grecia come in Rumania, e della poesia rumena popolare. È chiaro dunque che il Metastasio non può figurare, che come „uno de’ suoi modelli”, non, come, esagerando un poco per farci piacere, afferma il Iorga: „il suo modello”. E neppure „nella letteratura italiana, che preparò la patria nei cuori di tre generazioni, il quarto dei poeti Văcărești trovò il sentimento che lo fece scrivere sul Codice del Fanariota Giovanni Carageà i celebri versi:

Ah, d’ar putea a ne dobândi
Și câte-avem perdute,
Atunci ce duhuri n’ar gândì!
Ce guri ar mai fi mute?

Atunci, ș’acest Corb sărman
Iar Acvila s’ar face;
Ș’ori ce Rumân ar fi Roman
Mare ’n rasboiu și ’n pace!”51

No: questa lode va data alla gran madre Roma, donde „il santo uccello” (Iancu Văcărescu dice proprio così: „pajere sfânta”) „a venit in sbor... la Dacie”52, nè d’italiani si parla qui, ma di „Romani, grandi in guerra e in pace”.

Osserviamo piuttosto come sì per il Văcărescu come per Dante, l’aquila romana fosse „il santo uccello”, la „pajere sfânta”; e una simile concordanza tra l’antico poeta indigete d’Italia e il vecchio boiero rumeno, che, dopo secoli non meno tenebrosi per il suo popolo di quelli le cui ombre fugò il luminoso genio [p. 242 modifica]dantesco, potè sentir nel cuore il medesimo strazio che dettò a Dante la commossa apostrofe all’Italia „di dolore ostello” e lamentar che l’aquila imperiale si fosse trasformata in un corvo; una simile coincidenza ci sarà più cara a rilevare di qualsiasi influsso che la letteratura italiana abbia potuto esercitare sui sentimenti e sull’arte del più antico poeta rumeno. Così i versi del vecchio boiero, come le parole dell’illustre storico contemporaneo, mostrali che Roma non muore, che non è mai morta nel cuore de’ suoi figli anche lontani, anche decaduti, anche ignari della loro origine nobilissima.

Verrà il giorno che in Italia la favilla, gelosamente conservata nei monasteri e nelle scuole di grammatica, divamperà fulgida in un incendio sublime e la luce se ne spanderà sui popoli più lontani e farà che Italiani e Rumeni si ritrovino, si riconoscano. Allora i lampadofori stenderanno lontano, sin dove l’occhio non arriva, la loro catena simbolica, e, da mani polacche e transilvane, i latini del Danubio riceveran quella fiamma di vita che mani italiane avevano — prime — accesa.

Solo in questo senso gl’italiani possono possono accettare (ringraziando) le gentili parole del Iorga, sicuri di non farsi belli dei meriti degli altri e di non meritar più la severa lezione che il Lessing volle da loro una volta53 ed è pur servita a qualcosa. Ma sarà tempo di tornare al Metastasio. Una delle canzonette più squisite, che, per giunta, unisce agli altri pregi comuni a tutte le cose metastasiane, una universalità di contenuto, che non poteva non contribuire alla sua diffusione, è senza dubbio quella notissima intitolata: La libertà:

Ricordate?

Grazie agl’inganni tuoi
     Alfin respiro o Nice,
     Alfin d’un infelice
     Ebber gli Dei pietà:
          Sento da’ lacci suoi,
     Sento che l’alma è sciolta;
     Non sogno questa volta,
     Non sogno libertà!

[p. 243 modifica]

Libertà! Magica parola! Ci si presenta il ricordo di una piazza di Napoli affollata di popolo plaudente, di un poeta improvvisante:

Dalle nolane mura
     La libera coorte
     Gridando: „A Monteforte!”
     Alza il vessillo e va.
          La cittadina tromba
     Lieta squillar s’ascolta,
     Non sogno questa volta,
     Non sogno libertà!

Ah, ecco, ricordiamo. La costituzione di Napoli, la rivoluzione del ’21, Gabriele Rossetti tutto acceso di nobile entusiasmo, ma che di lì a poco sarà costretto a cambiar tono, maledicendo al re empio e spergiuro:

Re fellon che ci tradisti,
Tu rapisci e non racquisti,
Maledetto, o re fellon,
Sii dall’Austro all’Aquilon!

A ben altra Libertà inneggiava, prendendo le mosse dai versi dal Metastasio, il povero Rossetti! Pure il solo fatto che, in tal momento, poco propizio davvero a reminiscenze arcadiche, quei versi potessero assorgere a un così alto significato, depone, sì della popolarità che ancora il 1821 godeva (e continuò del resto a godere fin quasi a’ giorni nostri) la deliziosa canzonetta metastasiana, che del giudizio ben diverso che i nostri padri facevano dell’efficacia civile d’un poeta, cui lo stesso Carducci, testimone non sospetto di soverchia tenerezza verso l’Arcadia, canterà in nobilissimi versi „mastro di virtude” e „degna d’altri giorni „alma romana”.

Orbene, tra le poesie (ed. 1847) di Grigore Alexandrescu (1812-1885), se ne trova una intitolata Nina, della quale basta leggere soltanto le prime strofe per ravvisare in essa una traduzione, un po’ libera se vogliamo, ma ad ogni modo una traduzione della canzonetta famosa:

După atâta cochetărie,
Și necredință și viclenie,
In sfârșit, Nino, simț că trăesc!

[p. 244 modifica]

Inima-mi astăzi e isbăvită
D’acea sclavie nesuferită;
Mai mult asup ă-mi nu m’amăgesc.


canta il poeta rumeno, cui la canzonetta metastasiana par venga meravigliosamente in taglio per isfogar la sazietà e il disgusto, che, svaporati i primi entusiasmi, gl’ispiravano ormai le civetterie raffinate della sua donna. E seguita, riecheggiando più da vicino il Metastasio:


S’a stins in mine flacăra toată:
Subt o mânie neadevărată,
Mai mult amorul nu e ascuns.
Daca în lipsă-ti ești pomenită,
Sau înaintea-mi de ești slăvită,
De turburare nu sunt pètruns.

Eu dorm în pace, fară de tine;
Când deschiz ochii, când ziua vine,
Nu ești dorința-mi cea mai dintâi.
Nu-mi mai însufli nici o gândire;
Fară plăcere, fără măhnire
Te las, te ’ntimpin, me due când vii.

Nici ale mele lacrimi trecute,
Nici suvenire dulci si plăcute,
Nu pot a face să te doresc.
Cât ’mi-ești de scumpă poți vedea bine;
Fară pismă, acum de tine
Chiar cu rivalu-ml pociu să vorbesc.

Oh delicatezza svanita del metastasiano:

Odi s’io son sincero,

trasportato dalla settima alla terza strofe, sotto le spoglie cenciose d’un volgarissimo: „Ben puoi vedere quanto io t’amo”! Si ammetta o no rinterpolazione di quel verso (del quale ad ogni modo riman vedova nella traduzione rumena la deliziosa settima strofe); è certo che il discreto accenno metastasiano al „rivale” viene ad esser qui appesantito e snaturato. Rileggiamo le due strofe:
[p. 245 modifica]

Confuso più non sono
Quando mi vieni appresso;
Col mio rivale istesso
Posso di te parlar,

— spira quell’aura di serenità classica e pastorale che vediam nei ritratti aleggiar sulla fronte incipriata e senza rughe del cantor della Primavera— ;

Quanto mi sei cara puoi veder bene:
Col mio rivale posso or di te
Parlar senz’ombra di gelosia,

— malgrado, a bella posta, mi sia industriato d’aggiungere un che di decoro alla nuda traduzione letterale (= Puoi veder bene quanto mi sei cara: senza gelosia ora di te anche col mio rivale posso parlare), lascia intravvedere un ghigno volgarmente sarcastico, che, per fortuna, il settecento non conobbe, ed è, se mai, una specialità tutta romantica e moderna:

La colpa ad ogni modo non è dell’Alexandrescu, che non ha fatto se non tradurre assai fedelmente i seguenti versi francesi:

Juge enfin eomme je t’aime:
Avec mon rivai mème
Je pourrois parler de toi,

ma del Rousseau, cui, se Dio vuole, essi appartengono. Che infatti l’Alexandrescu traduca dal francese54, potrà vedersi chiaramente non appena avremo posto a confronto le due traduzioni col testo italiano:
[p. 246 modifica]


METASTASIO - La Libertà.

Grazie agl’inganni tuoi,
     Alfin respiro, o Nice,
     Alfin d’un infelice
     Ebber gli Dei pietà:

ROUSSEAU
Imitation libre etc.


Grâce à tant de tromperies,
Grâce à tes eoquetteries,
Nice, je respire enfin.
Mon coeur, libre de sa chaine,
Ne dèguise plus sa peine;
Ce n’est plus un songe vain.

Sento da’ lacci suoi,
     Sento che l’alma è sciolta;
     Non sogno questa volta,
     Non sogno libertà.

ALEXANDRESCU
Nina.


După atâta cochetărie
Și necredință și viclenie,
In sfârșit, Nino, simt, că trăesc.
Inima-mi astăzi e isbăvită
D’acea sclavie nesuferită;
Mai mult asupră-mi nu m’amăgesc.

Anche lo schema metrico è identico in Rousseau e in Alexandrescu, trattandosi nel primo di una strofe di 6 eptasillabi rimati aaxbbx, nel secondo d’un metro evidentemente ricalcato su quello di Rousseau, e risultante di sei versi di tipo giambico rimati similmente aaxbbx e disposti così:

Caratteristica la numerosa figliolanza di quel semplicissimo: „inganni” in: „tromperies” e „coquetteries” nella traduzione francese; in: „cochetarie”, „necredință” e „viclenie” in quella rumena. Si direbbe quasi che gl’inganni di Nice crescant eundo, moltiplicandosi a mano a mano che,

pei sen lunati ad arco.


se ne diffonde la fama

fin al Bosforo e all’Eussin!

[p. 247 modifica]La poesia fu pubblicata dall’Alexandrescu nella Foaia pentru minte del 28 maggio 1845 e nessuno fin qui aveva osservato trattarsi di una traduzione del Metastasio eseguita di sulla versione francese del Rousseau. Che anzi il Lovinescu55 crede potercisi fondare per narrar „l’epilogo di quell’agitato romanzo d’amore”, che fu la passione nutrita dal poeta rumeno per quella romantica Emilia, che pur gli parve un tempo tanto adorabile nel suo pallore, ne’ suoi capricci, nel suo morbido disgusto della vita.

Ma il mio amico che ha pubblicato anni fa una bella monografia sulla vita e le opere dell’infelice e caustico poeta rumeno, va forse un po’ tropp’oltre, quando pretende di ravvisare in questa poesia, che in fin dei conti potrebbe ben rappresentare niente più che una esercitazione metrica (tradotta com’è quasi alla lettera dal francese del Rousseau), un vero e proprio documento autobiografico. „Veniamo ora — scrive il Lovinescu — a ciò che costituisce l’epilogo di questo fortunoso romanzo d’amore, alla poesia Nina, pubblicata la prima volta nel Foglio per la mente il 28 maggio 1845. Pur non essendo che una „imitazione”, essa viene a formare la chiusa del romanzo, allo svolgimento del quale abbiamo assistito. La raffinata scaltrezza e la civetteria di Emilia non potevan riportare una vittoria duratura. Cotali mezzi di lotta non sono efficaci che in piccole dosi, altrimenti si ritorcono contro quello stesso che li adopera. Era perciò naturale che il poeta finisse per accorgersi di essere stato vittima di un’illusione.

Dopo tanta civetteria,
e indefeltà e doppiezza,
finalmente, Nina, sento di vivere:
il mio cuore oggi è affrancato
da quella schiavitù insoffribile;
più non m’inganno ormai a mio riguardo.

Venuta meno la fiaccola d’amore — legem surdam et inexorabilem — il poeta può dopo una lotta accanita con sè stesso per conseguir la vittoria sperata, fissare in volto senza paura αὐτὸ τὸ θηρίον:
[p. 248 modifica]

Quando spezzai la catena del mio servaggio,
Dio, che lotte, che duri strazi!
Mi pareva d’essere nelle mani della Morte.

Pure, alla fine, il poeta seppe vincersi. L’indifferenza dominò il suo spirito e gli occhi gli si rivolsero verso una nuova stella:

Nè la tua molto lodata bellezza,
nè i tuoi inganni sapranno trovare
un tale amante quale io son fiero d’essere.
Ti perdo, ma la nera sorte non mi par cruda,
poi che un’altra ingannatrice
m’è assai facile trovare.

Era la sig.-a *** codesta „ingannatrice”? Può darsi. Per quanto riguarda il nostro studio, la vita sentimentale del poeta finisce qui”56.

Tutto questo potrebbe ammettersi, qualora, pur trovandosi in una poesia apertamente confessata non originale, i versi citati dal Lovinescu non risultassero derivati dal Metastasio e tradotti alla lettera dalla versione del Rousseau. Invece poi che quasi un secolo prima l’abate italiano chiudeva la sua canzonetta a Nice colla strofe:

Io lascio un’incostante;
Tu perdi un cor sincero;
Non so di noi primiero
Chi s’abbia a co solar.
So che un sì fido amante
Non troverà più Nice;
Che un’altra ingannatrice
È facile trovar;

e che il Rousseau la traduceva (strapazzandola, a dir vero, un po’ troppo):

Tes appas, beautè trop vaine,
Ne te rendront pas sans peine
Un aussi fidèle amant.
Ma perte est moins dangereuse;
Je sais qu’une autre trompeuse
Se trouve plus aisèment;

[p. 249 modifica]
è chiaro che non sarà più da parlare di „luptă amarnică cu sine însuș”57, nè d’alcun „nou luceafăr”58; al quale, appunto perchè sorto da poco, non possono venir riferiti gli ultimi versi della strofe:


Căci o alta inșelătoare
Mai cu leșnire pociu să găsesc59,


che in fine dei conti non ci autorizzano punto a conchiudere che l’„altra ingannatrice” l’Alexandrescu l’avesse già trovata. Se mai, dato il posto che Nina occupa tra le rime del poeta, potremmo supporre che l’Alexandrescu vedesse nella poesia del Metastasio rispecchiato un suo particolare stato d’animo e per questo s’inducesse a tradurla; il che, dato il fondo di verità umana ch’è il miglior pregio così di questa come di altre canzonette metastasiane, possiamo bene ammettere, ed abbiamo infatti ammesso fin da principio.

Così la lode che „i coetanei dettero tutti al Metastasio”, d’esser, come dice il Rousseau, „le seul poète du coeur, le seul „génie fait pour émouvoir par le charme de l’harmonie poétique et musicale”60, trova una conferma nelle rime del delicato poeta [p. 250 modifica] rumeno, desideroso anche lui d’„uscir di guai” e „riacquistar sè stesso”, spezzando

la barbara catena
che trascinava un dì.

Quanto all’insufficienza dell’una e dell’altra traduzione a ridare il colorito, la spontaneità, l’eleganza della tenue e pur squisita canzonetta metastasiana, cade in acconcio riferir quanto, a proposito delle traduzioni inglesi e di questa stessa del Rousseau, ebbe a scrivere il Baretti in quel suo articolo sul Metastasio ch’è senza dubbio uno dei migliori della Frusta Letteraria: „In molti inglesi mi sono abbattuto, che, quantunque non estremamente versati nella lingua nostra, pure potevano ripetere a mente tutta la canzonetta a Nice, senza poter poi ripetere una sola strofa delle tre traduzioni di essa canzonetta, che sono stampate nella scelta di poesie inglesi pubblicata a Londra in sei tomi da Roberto Dodsdley; e sì che in ognuna di quelle traduzioni si sono fedelmente conservati i pensieri e l’ordine secondo l’originale; ma la chiara e precisa espressione non s’è conservata, nè a parer mio si poteva conservare; e così in Francia molti sanno a mente quella Canzonetta, ma a pochissimi è noto che lo stesso Voltaire, oltre a molti altri, l’abbia fatta francese con una sua traduzione, perchè Voltaire l’ha tratta dal Metastasio, e non l’ha tratta dal proprio cuore, come si può dire che Metastasio ha fatto”61

Qui è chiaro che il Baretti confonde il Voltaire con Rousseau, nè è da fargliene una colpa. A rigor di termini, non è neppur sicuro che l’autore ne sia il Rousseau, se un M. de Nivernais potè reclamarla per sua e comprenderla tra’ suoi versi62. Ad [p. 251 modifica]ogni modo tanto il Văcărescu che l’Alexandrescu potran nei campi Elisi consolarsi a vicenda di averci lasciate due traduzioni tutt’altro che riuscite, pensando che lo stesso era accaduto anche ad altri traduttori, che non avevan dovuto com’essi superar le difficoltà davvero enormi d’una lingua ancora in fasce e perciò priva di qualsiasi tradizione letteraria.

Note

  1. [„...șerbede producțiuni ale șcóleĭ clasice care trăgea se móră”].
  2. Ionnescu-Gion, Portrete istorice, București, Steinberg, 1834, p. 10.
  3. [„...scrierĭ, dulcezĭ, molâĭ, otova, cari azĭ, dela pagina a doua te leșuĭe pe inimă”]. Cfr. Ionnescu-Gion, op. cit., loc. cit.
  4. Della Morte d’Abele Costache Negruzzi (1808-1868) afferma non senza ironia ch’era l’unico libro, la cui lettura conciliava il sonno al vecchio suo padre, un simpatico tipo di boiero molto attaccato alle tradizioni e alla lingua nazionale, nella biblioteca del quale non mancava neppure una delle pubblicazioni (allora assai rare) in lingua rumena: fossero calendari o libri ecclesiastici, scritti originali o traduzioni. Cfr. C. Negruzzi, Păcatele tinerețelor, București, Socec, 1898, p. 11. A notarsi che in quella biblioteca, distrutta poi dai Giannizzeri nel 1821, accanto alla Morte d’Abele del Gessner, non manca di far bella mostra di sè quell’altro gran capolavoro di letteratura papaverica ch’è il Numa Pompilio di Florian, e che fra i romanzi ne troviamo due: Matilde di Madame Cottin e I cavalieri del cigno di M-me de Genlis (a non parlare di Manon Lescaut del Prévost che non poteva mancare), i quali ci parlano abbastanza eloquentemente dei gusti del tempo, che il vecchio boiero, volente o nolente, seguiva. A proposito di un poemetto del Gessner, imitato più tardi dal Negruzzi in persona, veggasi una mia noterella (Un’imitazione rumena dal Gessner e dal Vigny), negli Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze, Ariani, 1911, pp. 937-954. Sulle letture dei boieri rumeni verso la fine del secolo XVIII e il principio del XIX si vegga ora la bella memoria di N. Iorga, Ceva mai mult despre vìața noastră culturală și literară în veacul al XIX-lea, in An. Ac. Rom., Sect. ist., vol. XXXVIII.
  5. Cfr. Carducci, Pietro Metastasio, in Metrica e lirica del Settecento (vol. XIX delle Opere), Bologna, Zanichelli, 1911, p. 69.
  6. [„...prea înțeleptul și plinul dă Istorie și dă știință și mai vîrtosu, dă duhu născătoriu Metastasie, pantru care îndrăznescu a zice, că nu sau (sic) podobitu acestu Poetă cu poezia italiănească, ci au împodobitù poezia italienească, cu duhul si cu condeul său”]. Cfr. Observații | sau | băgări de seamă, asupra reguleloru | Gramaticii rumânești | adunate și alcătuite dă dumnealui | Iannache Văcărescul | cel dă acum dicheofulacs a bisericii cei mari a | răsărituluì, | și mare Vistieru a Principatulul Valachiel | Tipărită acum întru al doilea rându | in Vienna Austriei | la | Iosefu noblu de Burgeș | împărătescul și Crăescul al Burgieì Tipografii și bibliopolu || 1787, pp. 167-68.
  7. Cfr. G. I. Ionnescu-Gion, nei già citati Portrete istorice, p. 10.
  8. Cfr. la Bibliographia românească veche di I. Bianu e Nerva Hodoș, București, Socec, 1909, tomo II, sotto il n. 611 e quanto avremo occasione di dirne anthe nello studio seguente: Per la fortuna del teatro alferiano in Rumania, in questo medesimo volume.
  9. „Că de are Ungariia un Gheorghie Montan, Transilvania se laudă cu un Theodor Corbe, un Vasilie Aron, un Ioan Bărac, un Ștefan Crișan”  1 .
    1. Acesta multe au tradus din Metastasie. Cfr. Psaltirea prorocului, s. c. l. quaderno 3, foglio 3 (a 8).
  10. Psaltirea | proroculul și împărat | David | în verșuri a[l]căiuită | de | micul între musicoșii sistimii vechi | Ioan Prale din Iașul Moldovii | In zilele tristilor intâmplări ce s’au început | prin Țările Românești din anul 1821 | spre a să înnoi aducerea aminte de cele ce strigă Psalmii: și spre folosul | celor de națila sa Români, și a iubiților lor: acum întâi cu cheltuiala sa, la | Brașov | s-au typărit în typografiia D. Franțisc de | Șobelt, prin Fridrih Horfuri, | 1827.
  11. Cfr. in questo volume il saggio sulla Fortuna del teatro alferiano in Rumania.
  12. Purg., XXII, 67-69.
  13. Anche nella poesia di Ienăchiță troviamo la rima, però dietro l’esempio della poesia greca. Basta infatti dare un’occhiata alle poesie del Christopoulos per convincersi come il Văcărescu non abbia fatto che trasportare in rumeno i medesimi tipi di strofe che trovava usati dal Christopoulos nelle sue anacreontiche. Una delle strofe più comuni nelle poesie del poeta greco è infatti:

    Θαυμαστοὶ, κρασοπατέρες
    ταῖς γαβαθαῖς σὰν μαχαίραις
              Ξεπαθῶστε μιὰ φορά·
    Κι´ ἀπὸ δύω καὶ δύω μονάχοι
    Σὰν ἀνδρεῖοι μονομάχοι
              Ἁς ῥουφοῦρε τολμηρά.

    E il Văcărescu:

    A socoti ca poate
    Un om să facă toate
             Orĭ câte va gândi,
    Nu-i duh de isteciune,
    Nici semn de’nțelepciune,
             și n’o va dobândi.


    Il metro è alquanto diverso:


    per quanto, nella seconda parte della strofe, coincida in tutto, meno che nell’ultimo piede del sesto verso ( invece di||) , con quello della poesia greca. L’ordine delle rime è però il medesimo di quello così spesso usato dal Chiabrera (a5 a5 b7, c6 c5 b7):

    La violetta
    Ch’in su l’erbetta
    S’apre al mattin novella,
    Di’ non è cosa
    Tutta odorosa,
    Tutta leggiadra e bella?

    Il metro non è originale del Chiabrera; ad ogni modo è certo che la poesia neo-ellenica lo abbia derivato dalla letteratura italiana. Sull’influenza della poesia italiana su quella neo-ellenica e sull’introduzione della rima sconosciuta alla poesia popolare, cfr. Karl Dieterich, Geschichte der byzantinischen und neugriechischen Litteratur, Leipzig, 1902, cap. V: Die neugriechische Kunstpoesie des ausdruck des Volkscharakters, pp. 194 sgg. e 198 sgg., e, del medesimo, l’ottimo studio: Die osteuropäischen Literaturen in ihren Hauptsrömüngen vergleichend dargestellt, Tübingen, Mohr, 1911. Si vegga inoltre quanto A. Rizo-Rangabè scrive a pp. 117-18 del suo Précis d’une histoire de la littérature néo-hellénique, Berlin, 1877. — Sull’antica versificazione rumena poi e sulle sue relazioni colla versificazione e la metrica polacca e greca, cfr. N. J. Apostolescu, L’ancienne versification roumaine, Paris, Champion, 1909 utilissimo libretto che ho avuto già altre volte occasione di citare con la lode che merita.

  14. Cfr. Ovid Densusianu, Ienachiță Văcărescu in Revista Universitară pentru cursuri si conferințe, I (1900) p. 177.
  15. [„de la început prea îngrijită”].
  16. [ „un German anume Weber îi explică regulele limbei latine; alți profesori îl învățară italienește, franțușește,și hogi il familiarizară cu limba și literatura otomană pe care în urmă le cunoștea foarte bine”]. Cfr. Th. D. Sperantia, Scriitori vechi (n. 500 della Biblioteca pentru toți), București, Alcalay, 1909, pp. 9-10. Il passo citato è in Odobescu, op. cit., I, p. 260, alla quale, cum grano salis, lo Speranția dice di attingere le sue notizie.
  17. Koernbach, Studien über französische and daco-romanische Sprache and Literatur, Leipzig, 1850, p. 154, dove cita l’italiano fra le lingue più comunemente parlate nell’entourage dei vecchi boieri. Cfr. anche L. Șăineanu, Istoria filologiei române, Bucuresci, Socec, 1895 pp. 51— 52.
  18. Niculae Milescu (n. a Vaslui il 1625, m. il 1714) fece i suoi studi in Italia e precisamente a Padova, dove si perfezionò nelle scienze naturali e matematiche. Notizie su di lui in Erbiceanu, Bărbații culți Greci și Români și profesorii din Academiile de Iași și de Bucuresti din epoca zisă fanariotă (1650-1821), in Analele Ac. Rom., Secț. ist., XXVII (1904-905), p. 153 sotto Nιχόλαος Σπαθάριος. E. Picot, Notice biographique... sur Nicolas Spalar Milescu, Paris, 1883. — L. Șaineanu, op. cit., p. 52.
  19. Șăineanu, op. cit., p. 95.
  20. Delle tre varianti, che sono a mia conoscenza, di questa poesia, solo quella data da Alexandri sia avvicina a questa del Văcărescu per ciò che riguarda il numero dei versi:

    Amărîtă turturică
    o ! sermana, vaĭ de ea!
    Cât remâne singurică
    o! sermana, vai de ea!
    Sbóră tristă prin pustie
    o! sermana, vav de ea!
    Maĭ mult mórtă de cât vie
    Cât trăesce tot jălesce
    Cu alta nu se ’nsoțesce.
    Trece prin pădurea verde
    Dar ea pare că n’o vede

    Sbóră, sbóră până cade
    Și pe lemn verde nu șade,
    Ear când stă câte o dată
    Stă pe ramură uscată
    Orĭ se pune pe o stâncă
    Și nicĭ bea nicĭ mănâncă.
    Unde vede apă rece,
    Ea o tulbură și trece,
    Unde vede un vênĕtor
    Către el se duce ’n sbor.

    (Poezii populare ale Românilor, 1866, n. XXXIII, p. 264).


    Nelle Poesie populare române di G. Dem. Teodorescu, Bucuresci, 1885, pagine 347-8, riscontriamo altre due varianti:

    Amărîtă turturea,
    o, sărmana vai de ea!
    de doru de inimă rea
    cându îi piere soția
    soția din tinerețe
    cu milă și cu blândețe,
    unde vede apa rece
    ea o tulbură și trece
    ș. c. l.

    Amărîtă turturică
    o, sărmana vai de ea!
    cându rèmâne singurică
    plânge, inima își strică,
    nesciindu ce se mai zică
    sbóră tristă prin puștiă
    cu doru dup’a sea sociă:
    jalea ei nu se mai scrie,
    mal multù mórtă-i de câtă vie.

    Cfr. inoltre la Ornitologia poporană română, de G. Fl. Marianu, Cernăuți, 1813, pp. 200-213, donde si rileva che questo tema si trova diffuso non solo fra i rumeni di Moldavia e di Muntenia, ma anche fra quelli di Transilvania e di Bucovina. Cfr. a questo proposito il noto articolo di B. P. Hășdeu, in Cuvinte din bătrâni, Bucuresci, 1879, II, pp. 442, 501 e 728. Di ispirazione prettamente popolare ritiene questa poesiola del Văcărescu Ovid Densușianu nel suo corso di Literatura română pubblicato in riassunto nella Revista universitară pentru cursuri și conferințe, anul I (1900), nn. 6 e 7 (25 marzo), pp. 177-181, dove ritiene „că el a fost influențat de gustul rău al lăutarilor de a altera și amplifica poesiile populare” (p. 179) [„che egli abbia subito l’influenza del cattivo gusto de’ „leutari” che solevan alterare e ampliare (cantando) le poesie del popolo”]. Una variante in molti punti diversa dal tipo comune è pubblicata in Graiul nostru ( Texte din toate părțile locuite de români publicate de L.-A. Candrea, Ov. Densusianu, Th. D. Sperantia), București, 1906-07, vol. I, 6 (n. VII). Su questa poesia, la cui diffusione fuori d’Italia rappresenta un vero mistero, cfr. D’Ancona, La poesia popolare italiana, Livorno, Giusti, 1906, pp. 225 sgg.; Haupt, Franzosische Volkslieder, Leipzig, Hirzel, 1877, p. 12; G. Paris, Chansons du XV-e siècle, Pàris, 1875, p. 145; Cian, in Giornale, st. d. lett. it., IV, 45. Cfr. inoltre nel medesimo Giornale, i voll. IV, 23 n., 431, e XV, 473, per ciò che riguarda altri raffronti colla poesia d’arte e popolare italiana spagnuola, e persino danese.

  21. [„Da interprete ai dignitarii in lingua italiana”].
  22. L’italiano infatti era a quei tempi ben noto alla corte di Vienna, e Giuseppe II lo conosceva a perfezione. Cfr. M. Landau, Die italienische Litteratur am Oesterreichischen Hofe, Wien, 1879, dove a p. 25 si dice che l’italiano era parlato con facilità e spesso preferito nelle conversazioni di Corte, nicht bloss mit Ilalienern, sondern auch unter einander. Cfr. anche il buon discorso di Mussafia, Pietro Metastasio (Vienna, Gerold e C., 1882), recitato nel primo centenario della morte del poeta, e il recente interessante opuscolo di Umberto De Bin, Leopoldo I e la sua corte nella letteratura italiana, Trieste, Caprin, 1910, su cui cfr. Giornale, st. d. lett. it., LIX, 451-52.
  23. [„Escellență, domnule, si patron meu, De vreme ce norocul, și intèmplarea au bine-voit ca sa facă prigionier pe mine, un om fără de arme, și în vreme de armestițiu, la portătoarele de biruință astă dată armele Rusesci, mai vîrtos avènd și pașaport cu protecție Chesaricèscă, pentru vină căci 'mi păzesc dupe datorie credința la stèpènii ce Dumnezeu mi-au orânduit, sunt desèvèrșit întèmplării mulțumit și noroculul, căci ’mi au făcut acèsta deosebită cinste, unde nu facu altă rugăciune Escelenței, fară de numai, în vreme ce arderea sórelui îmi pricinueșce multă tirănie, aflèndu-mă într’un câmp, me rog Excelenței tale ca sa fiu trămis cu un cias mai nainte și eu la locul unde se află și cel-l’alți prigionieri în vreme de razboiu și cu armele în mână și voiu si fòrte mulțămit acesteì fàceri de bine, remâind ș. c. 1...”]. Istor. imp. otom., p. 179, Odobescu, op. cit., I, pp. 268-69.
  24. [„se ivesce influența deosebitelor limbi ce el cunoscea” e che „ziceri usuale turcesci se gasescu alăturate cu cuvinte luate din limba italiana și scrise de autor chiar cum se pronunța într’acèstă din urmà limbă”]. Cfr. Odobescu, Scrieri literare și islorice, vol. I, Bucuresci, Socec, 1887, p. 268, n. 1.
  25. Tesauru de monumente istorice pentru România, atâtu din vechiu tipărite câtu și manuscripte, uă mai mare parte străine, adunate, publicate cu prefacțiuni și note ilustrate de A. Papiu Ilarianu, Bucuresci, 1863, p. 243.
  26. Papiu Ilarian, op. cit., loc. cit.: [„Cunoscința limbei italiane ’lu ajută de a forma cumu se cuvine, cuvintele nóuă ce ad’óptă. Intru o scriere din secolulu trecutu, ne place a ceti cuvinte și forme ca urmatóriele: refugiu și scăpare sucesorit lui Moameth. conditione. protetione. rebelionea ieniceloru. deci răpi acèsta ocasione mal cu favore, eroe, mediatoru. acomodamentu. garante la pacea. asaltu. nobletià. politetià. asediu. fortetia. consiliulu de miniștri, stema imperiului Romaniloru. și dicherară pe Tekelu domnu. se impatroniră Rușii de Moldavia”].
  27. Turcicarum rerum commentarium Pauli Jovii Episcopi Nucerini, Parisiis, Ex Officina Roberti Stephani, M.D.XXX. VIII.
  28. Historia dell’origine, guerre ed imperio dei Turchi, raccolta da Fr. Sansovino, Venezia, Andrea Cambini, 1654.
  29. Commentario de Andrea Cambini fiorentino, della origine de’ Turchi et imperio della casa ottomanna, Venezia, 1540 e 1654, a non parlare di una Cronica dell’origine e progressi della casa ottomana di Saedino Turco, tradotta da Vincenzo Bratulli raguseo, interprete di Ferdinando III, Vienna, Matteo Riccio, 1649, che il Văcărescu poteva leggere nel testo.
  30. Anche il Iorga del resto rileva (Ist. lit. rom. in sec. al XVIII-lea, II, 144-45) che gl’italianismi (e in genere gli esotismi) son più numerosi nei brani che si fondano su fonti scritte: „Mai ales cît timp istoricu se răzimă pe izvoare scrise, stilul are o înfățișare petecită, macaronică. Întâlnim expresiì de jargon levautin, locuții de Smirna în opera de căpetenie a slăvituluì poet: ’ciflic’alăturea de ’protețione’, ’famoz’, ’trecvă’... ’ribelione’, ’prigionier’, ’locotenente’” Correggendo le bozze aggiungo che tra queste fonti scritte, il Văcărescu stesso (p. 246) ammette (cfr. Iorga, op. cit., II, p. 143), „istorici itali”. Tra i quali sarà da annoverare anche il Piccolomini, come appare da un interessante periodetto, in cui ci fa sapere la sua opinione sull’italiano che avrebbero parlato i primi coloni romani e le ragioni per cui, malgrado ciò, oggi in Rumania non si parli italiano. Cfr. Iorga, op. cit., II, 278: „Secondo il Văcărescu (che crede in Flac), Traiano avrebbe trasportato in Rumania coloni italiani, e, naturalmente, questi italiani non potevano parlare altra lingua che l’italiana. Ma questi emigrati eran uomini rozzi che non sapevan di lettere e mancavan persino di maestri di grammatica. Se fossero stati più istruiti o almeno avessero avuto qualcuno che li avesse potuti istruire, tutti parleremmo ora la lingua italiana, che parlavano qui da noi quei dominatori di allora. Ma così non poterono andare le cose per i motivi esposti di sopra, ed ecco che la lingua dei coloni „italiani” si corruppe in mezzo ai coabitanti Daci e Bulgari e Serbi vicini. I termini scientifici poi e tutte quelle locuzioni che gl’italiani hanno attinto ai Latini e i Latini alla fonte, cioè alla lingua dei Greci, si sono perdute e la lingua della Dacia s’è dissoluta riducendosi quella che è, un gergo misto di molte lingue!” E pensare che il V. scriveva dopo Miron Costin ed era contemporaneo di Klein (Micu) e di Șincai!
  31. L. Șăineanu, Istoria filologici române, p. 95: „Scriind prima gramatica românesca autorul avu să întîmpine din capul locului o mare greutate: nomenclatura sciințifică. Din ce limbă să împrumute și după ce criterii să facă acèstà împrumutare? Văcărescu, familiarisat mal mult cu limba italiană, caută a da o soluțiune practică cestiunii, adoptând acèstă limbă ca normă generală pentru nomenclatura gramaticală”. [Accingendosi a scrivere la prima grammatica rumena, l’autore ebbe a lottare fin da principio con una grave difficoltà: la nomenclatura scientifica. Da quale lingua l’avrebbe presa a prestito? e da quali criterii si sarebbe fatto guidare nella scelta? Il Văcărescu, cui la lingua italiana era più familiare delle altre, cerca di dare alla questione una soluzione pratica, adottandola come norma generale da seguire nella nomenclatura della sua grammatica].
  32. [„Limba talieneascà n’au obișnuitu a avea stihuri cu număru dă picioare, ci numaì cu număru dă sulabe, și cu multe feluri, altele dă șase, altele dă optu, altele si dă BI (= 12). Și până la EI (= 15!) Acestea totu cu o formă dă glăsuire la pronunție, totu cu o curgere, cu potrivire dă sulabe la fîrșitu, și aceasta dă multe chipuri, cu mari gândiri, pre cumu suntu dintr’ale multor alți Autori, ale lui Tasu, șì Ariostu, și Petrarcha, și ale prea înțeleptulul și plinulul de Istorie... Metastasie...”]. Cfr. Văcărescu, Observații citate, pp. 167-68 dell’edizione viennese del 1887.
  33. [ „grandi pensieri”]
  34. Bertoldo, Bertoldino fiutù seu, și Cacasino nepotulu lui, Sibiiu, 1799, e, fin dal 1683, tradotto in greco, come rilevo dalla Bibliographie hellènique (II, 417) di Émile Legrand (Paris, 1894), dove per la prima volta si fa menzione di questa traduzione ormai rarissima (l’unico esemplare che se ne conosca è quello già appartenuto a G. A. Fabricius, ora alla Bibl. imp. di Pietroburgo) del popolare libretto di G. C. Croce, che seguitò a godere in Grecia il favore dei semplici di cuore fin verso il 1815, come appare dalle successive ristampe alenate nel 1804, 1807 e 1813.
  35. Nel ms. n. 433 della Biblioteca Academiei Române leggiamo a c. 1 le seguenti parole: Aceasta carte ce să numește Zăbava Fandasiei, s’au tălmăcit de pre limba grecească | pe limba moldovenească | de dumnealui Costandin Vârnav | ...ș. c. l. la anul 1788, Dechemvri 12,... ș. c. l. | Questo libro che si chiama Scherzi di fantasia è stato tradotto dalla lingua greca in quella moldava del signor Costantino Vârnav... ecc. nell’anno 1788, 12 decembre..., ecc.].
  36. Femeile urîte, roman sentimental prelucratu din Italienește de L. Paganini, Bucuresci, Andrici, 1871.
  37. КОЛЄКЦИЄ | Дин |ПОЄЗИЛЄ | Д-лѹн МЯРЄЛѸІ ЛОГОФЪТ | І. ВЪКЪРЄСКѸ | Типъритє кѹ фондѹрилє Ясочіациєн литєрарє. | Бѹкѹрешті 1848, pp. 181-183. — Cfr. Al. Odobescu, op. cit., pp. 241 sgg.; I. Ghica, Scrisorǐ luǐ Vasile Alexandri, București, 1887, p. 483.
  38. Ritengo trattarsi di Michel-Joseph Gentil de Chavagnac, nato a Parigi verso il 1772, autore drammatico di qualche importanza, autore di un Jeune Werther ou les grandes passions (1819), e, quel che più importa, di un Recueil de chansons et poèsies fugitives, Paris, Roza, 1815.
  39. Italianismo in luogo di obosit. Cfr. l’italiano: stanco.
  40. Italianismo in luogo di ne plângem. Cfr. l’it.: gemere.
  41. Forse ricordando „la selva, il colle, il prato” d’una più celebre e più largamente nota canzonetta metastasiana (La Libertà), tradotta anch’essa, come vedremo di qui a poco, in rumeno da Grigore Alexandrescu.
  42. [„...cu câte greutăți aveau să lupte aceia care,în acea epocă voiau să îmbogățească literatura română fie prin producțiuni originale, fie prin traduceri de pe autorii străini”]. Cfr. Literatura româna moderna de Mihail Dragomirescu și Gheorghe Adamescu, ediția II, București, H. Steinberg, 1906, p. 109.
  43. [„...tendința hotărîtă de a da limbii românești multiplele întorsături și variata alcătuire de fraze caracteristică limbilor clasice, și în specie celei grece”]. Dragomirescu, op. cit., loc. cit.
  44. [„...neștiință”]. Ibid.
  45. [„...nepricepere”]. Ibid.
  46. N. Iorga, Breve storia dei Rumeni, p. 146: „Nel... Metastasio trovò il suo modello Iancu Văcărescu. Aveva passato qua che tempo a Pisa e prima, a Vienna, dove l’abate italiano era sempre stato un autore prediletto; la sua prima opera fu una „Primavera d’amore”, in cui si cantavano

    „Ceres, Pan, Fauni, Silvani,
    „zefiri, rose, stelle e pastori”.

    .
  47. Ibidem.
  48. Prima di lasciar Iancu, ricorderemo, così di passaggio, che, tra le sue poesie, troviamo anche la traduzione della barcarola della Muta di Portici:

    Copii! ce lină dimineață!
    Pe țărm cu toții v’adunați!
    La vifor voi nu schimbați fața,
    Veseli în luntre când intrati!

    .
  49. [„Bacchie e Respuns”].
  50. [„Dracul”].
  51. Iorga, op. cit., loc. cit. [„Oh potessimo rivendicare | quanto abbiamo perduto! | Allora qual mente resterebbe infeconda, | qual labbro muto? | Alora anche questo povero Corvo | di nuovo Aquila diverrebbe | e ogni Rumeno sarebbe Romano | grande in guerra e in pace”. Un corvo con una croce in bocca è infatti lo stemma della Valachia.
  52. [„...è giunto a volo... nella Dacia”].
  53. Gotth. Ephr. Lessings, Fabeln, Leipzig, G. I. Göschen, 1897: Die Wespen (p. 11).
  54. Risulta infatti da una sua lettera a Ion Ghica (22 febbraio 1850) recentemente pubblicata dal Lovinescu (cfr. Scrisorile lui Grigore Alexandrescu călre Ion Ghica, in Convorbiri literare, XLV (1911), p. 753) che l’Alexandrescu non sapeva l’italiano: „Mi s’au dat din parte-ți niște versuri italienesti a le traduce, dare se afla încă asa nepipăite, precum le-am primit, întâi pentrucă nu știu italieneste, și apoi pentrucă dispozițiile in care mă aflu acum nu mă iartă a mă ocupa de nici un fel de lucru și încă mai puțin de poezie”. [Mi si son dati a tradurre da parte tua certi versi italiani, che però son rimasti lì vergini come li ho ricevuti, in primo luogo perchè non conosco l’italiano, in secóndo perchè lo stato d’animo in cui mi trovo non mi permette di occuparmi di lavori di sorta e tanto meno di poesia].
  55. E. Lovinescu, Viața și opera lui Grigore Alexandrescu, București, Minerva, 1909, pp. 186.
  56. Lovinescu, op. cit., pp. 186 sgg.
  57. [„...tragica lotta con sè stesso”].
  58. [„...nuovo astro”].
  59. [„...perchè un’altra ingannatrice con maggior facilità posso trovare”]
  60. Cfr. Dictionnaire de musique, art. Génie. Nella Nouvelle Héloìse le citazioni dal Metastasio sono tutt’altro che rare, benchè meno numerose di quelle dal Petrarca. Una delle più rilevanti mi par la seguente, che si legge nella lettera XXV (di Giulia) della Parte I: „Encore si j’osois gémir, si j’osois parler de mes peines, je me sentirois soulagée des maux dont je pouvrois me plaindre; mais, hors quelques soupirs exhalés en secret dans le sein de ma cousine, il faut. étouffer tous les autres; il faut contenir mes larmes; il faut sourire quand je me meurs:

    „Sentirsi, oh Dei! morir,
    E non poter mai dir
    Morir mi sento”.

    I medesimi versi del Metastasio ricompaiono in una lettera del Rousseau a Madame Latour (IV, 704) del 20 gennaio 1768, preceduti dalle seguenti parole: „Le ciel qui veut qu’il ne manque rien à ma misère, m’òte la plus précieuse consolation des infortunés”: quella cioè di poter sfogare il proprio dolore, confidandosi con una persona cara. Anche la lettera XXXIV (Réponse) della Nouvelle Héloise (I-ère Partie) comincia con dei versi del Metastasio:

    No, non vedrete mai
    Cambiar gli affetti miei,
    Bei lumi, onde imparai
    A sospirar d’amor.

    Ho presente l’edizione delle Oeuvres complètes de J.-J. Rousseau pubblicata a Parigi il 1846 (Furne et C-ie).

  61. Num. III.
  62. „Cette chanson a été réclamée par M. Nivernais, qui l’a comprise dans ses oeuvres. Jean-Jacques ne s’est jamais donné pour en être l’auteur; elle lui a été attribuée par les premiers éditeurs de ses oeuvres”. Così in una nota alla citata Imitation libre d’une chanson italienne de Métastasio, op. cit, III, 366. Sulle relazioni fra il Metastasio e il Rousseau, cfr. ora l’articolo, pieno per altro di inesattezze, di H. Monin, Les oeuvres posthumes et la musique de Jean-Jacques aux „Enfants-Trouvès“, in Révue d’histoire littéraire de la France. (Janvier — Juin 1915).