Piemonte occidentale

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Asti Vercelli e il Vercellese - fine XII secolo

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5. Il Piemonte occidentale: Torino, Ivrea, Biella dagli ultimi decenni dell’XI alla metà del XII secolo

Al principio di questo contributo si è visto che a Vercelli e nel Vercellese, dopo una isolata attestazione di un pagamento in moneta Pictaviensis in una vendita rogata in Caresana nell’anno 10951, al principio del secolo XII prese a circolare e a funzionare da standard di riferimento una moneta nuova che, come si diceva e si vedrà meglio più avanti, era di conio pavese. Nello stesso periodo nel Novarese dominano in sequenza due diverse denominazioni di moneta emessa dalla zecca milanese, mentre nel terzo decennio del XII secolo, dopo un lungo silenzio delle fonti, è documentata nell’Astigiano la diffusione di una emissione pavese mediana tra quella più forte cessata alla fine [p. 29 modifica]dell’XI e una terza più debole inaugurata intorno al 1115, sulla quale le fonti astigiane tacciono. Questo ancora incompleto quadro comparativo, per ora privo di un adeguato significato storico, è comunque utile per contestualizzare i dati che emergono dai documenti di area torinese e da quelli di area eporediese.

Gli scarsi documenti utili di cui si dispone, significativi solo a partire dall’ultimo ventennio circa dell’XI secolo2, convergono nell’attestare un periodo di egemonia della moneta di conio pavese tra il 1079, data alla quale risale la prima attestazione di moneta etichettata, e la fine del secolo. La moneta pavese comparve come numerario di prestigio nelle clausole penali di due documenti in favore del monastero pinerolese di Santa Maria: una promessa di non turbare la disponibilità che l’ente religioso aveva di due complessi fondiari3 e – testimonianza di maggiore interesse, perché getta un raggio di luce sulla diffusione di prassi di economia monetaria nel Pinerolese della fine dell’XI secolo – un complesso patto concernente questioni creditizie tra due coniugi e l’abate del citato monastero4. Nel 1083, come si accennava già nell’introduzione, la penale prevista in una concessione della marchesa Adelaide di Torino e di sua nuora Agnese alla canonica valsusina di San Lorenzo di Oulx venne fissata alla somma di cento lire di buoni denari pavesi5. Nello stesso torno d’anni il ruolo di moneta di riferimento sostenuto nel Piemonte occidentale dai denari pavesi risulta confermato da due concessioni di terre in censo da parte della canonica cattedrale di Santa Maria di Ivrea6. [p. 30 modifica]

L’egemonia della moneta pavese di vecchio conio entrò in crisi sin dagli ultimissimi anni del secolo, insidiata e subito sostituita come termine di riferimento monetario dalla più debole moneta pittavina. La cartula ordinacionis con cui l’abate pinerolese dotò nel febbraio 1096 la prevostura di Rivalta, sita al principio della valle di Susa, stabilì che il nuove ente riconoscesse la dipendenza dalla casa madre pagandole un censo annuo ammontante a «solidos decem Pictavensium vel quinque Pap[iensium]»7, rapporto identico a quello attestato nella penale di una donazione alla canonica di Oulx di alcuni anni prima8. Come si ricorderà, tale rapporto di uno a due è lo stesso esistente tra la moneta pavese di vecchio conio e la nuova emissione pavese inaugurata a partire dal 1100 circa. Ad ogni modo dal 1096 in poi nella documentazione superstite delle aree torinese ed eporediese la moneta di riferimento esclusivo divenne quella pittavina: nel Torinese, con le interessanti eccezioni che ora si vedranno, fino alla fine degli anni trenta del XII secolo; fino al termine degli anni quaranta a Ivrea, sulla base della scarse testimonianze tràdite, dove i primi accenni di mutamento emergono da un documento del 1151. Per l’area valsusina le non molte fonti disponibili presentano invece un quadro meno univoco.

Nei documenti eporediesi il riferimento ai denari pittavini – che esclude, è importante rilevarlo, qualsiasi menzione nei documenti di moneta di conio diverso9 – è presente sia come censo annuale preteso in cambio della concessione di terre o case10 sia come prezzo in compravendite di beni fondiari11.

Per il Torinese la situazione sembra del tutto analoga, fatta salva una maggiore ricchezza documentaria e una presenza significativa di carte in cui i valori monetari continuano a essere espressi in forma generica12: dopo il [p. 31 modifica]documento del febbraio 1096 inizia una nutrita serie di carte che offrono tutte dati inequivoci riguardo al ruolo dei denari pittavini come esclusiva moneta di riferimento. Basterà citare la ricca sequela delle concessioni di beni agrari in censo annuale per un termine ventinovennale o sino alla terza generazione operate dal monastero di San Solutore, sito fuori le mura di Torino nei pressi della porta Segusina13, e il meno ricco ma egualmente interessante gruppo di accensamenti del tutto simili concessi dalla piccola canonica (poi anche ospedale) di San Benedetto di Torino. Documenti nei quali le menzioni della moneta pittavina sono più costanti nelle penali che nelle formule volte a fissare il censo annuale in denaro14.

Il prestigio e il ruolo di saldo riferimento monetario del denaro pittavino è dunque bene attestato dal costante ancoraggio a esso delle penali di documenti in cui, d’altra parte, la fissazione dei censi in una determinata moneta appariva meno importante, date la tenuità e il valore puramente ricognitivo di essi. In primo piano venne la tutela dei diritti acquisiti dal concessionario, in contratti che avevano tutte le caratteristiche della vendita larvata15.

Se la moneta pittavina fu la valuta di riferimento nel genere di contratti ora visti, nella stessa moneta vennero espressi anche i prezzi delle vendite16, i prezzi pattuiti per il riacquisto delle migliorie apportate dai concessionari sui beni di enti ecclesiastici17, le somme di denaro stabilite per la redenzione di beni dati in pegno18 e altro. Questo, come si è detto, fino alla fine degli anni [p. 32 modifica]trenta19. Negli anni immediatamente successivi il riferimento monetario cambiò, come si vedrà più avanti, in favore di un circolante locale, la moneta di conio segusino.

A Ivrea, come si diceva, i pochi documenti superstiti testimoniano il ruolo egemonico della moneta pittavina sino alla fine degli anni quaranta: è del novembre 1149 una investitura del capitolo di Santa Maria di Ivrea a due fratelli di un manso sito nel territorio di Palazzo (oggi Palazzo Canavese) per un censo annuo di quattro soldi di moneta pittavina20; mentre si è già nel settembre 1151 con l’appignoramento di otto iugeri di arativo per un prestito di ventiquattro soldi, quindici in moneta pittavina e nove in moneta segusina21.

Nel Piemonte nord-occidentale si ebbe quindi dagli anni trenta fino ad oltre gli anni cinquanta (quest’ultimo termine vale per l’Eporediese22), una circolazione parallela delle monete dei due coni segusino e pittavino, con una tendenza della moneta segusina a prevalere.

Ma quando aveva iniziato a diffondersi quest’ultima nuova moneta? L’erudizione piemontese sette-ottocentesca riteneva che l’apertura della zecca di Susa dovesse risalire agli ultimi anni dell’XI secolo, attribuendo l’iniziativa a Umberto II (morto nel 1103). Domenico Promis si basò su un documento dell’Archivio del capitolo cattedrale di Torino che datò erroneamente al 1104, mentre era in realtà di un sessantennio posteriore23. Il primo riferimento certo sembra essere in realtà lo stesso utilizzato da Giuseppe Vernazza in un suo studio sulla moneta segusina uscito alla fine del Settecento: un documento della canonica di San Lorenzo di Oulx del 1109 che menziona la nuova moneta nella penale24. Il fatto è che questa moneta non sembra affatto avere le caratteristiche della moneta «conquérante», per [p. 33 modifica]riprendere una espressione di Pierre Toubert: negli anni successivi la documentazione ulciense offre un solo altro riferimento monetario utile, ed è alla moneta pittavina in un documento redatto nel 1132 probabilmente nei pressi di Torino ma relativo a decime della canonica di San Lorenzo in Cesana, villaggio non lontano dal valico del Monginevro25. Sarebbe poco davvero se non si disponesse di un altro isolato documento valsusino – purtroppo non ben databile, ma forse del 112926 – in grado di suggerire che tra gli anni venti e gli anni trenta, un paio di decenni dopo la prima attestazione della moneta segusina, la circolazione monetaria della valle stava vivendo una fase di passaggio. Il priore del monastero di San Pietro della Novalesa imprestò ad Arnaldo, priore dell’abbazia di San Giusto di Susa, trecento soldi di moneta segusina prendendo in pegno certi beni fondiari che Arnaldo avrebbe avuto indietro l’anno successivo se avesse restituito il denaro, purché naturalmente il valore del numerario restituito fosse il medesimo di quello imprestato («si prefatos trecentos solidos secundum fortitudinem datę monetę reddiderit, recipiat pignus suum»). Questa precisazione necessitava di una delucidazione, che infatti non mancò: «Secusienses denarii tunc eo tempore dabantur quattuordecim et meala pro duodecim Pictavinis»27.

Più debole rispetto alla pittavina (valeva quasi il 18% in meno), la moneta segusina si affermò nel Torinese soltanto al principio degli anni quaranta del XII secolo e nell’Eporediese, come si è visto, ancora più tardi, al principio del sesto decennio del secolo. Del resto, dalle carte stesse relative alla valle di Susa intitolate all’autorità che emanava la moneta segusina facendovi imprimere i propri simboli, emerge che a quest’ultima moneta era preferita la più forte, e probabilmente più abbondante, moneta pittavina28. Come si vedrà [p. 34 modifica]meglio nelle considerazioni finali, la moneta dei conti di Savoia finì probabilmente per imporsi per ragioni di ordine politico29.

In ogni caso il primo documento ad attestare una circolazione della moneta sabauda nel Torinese è del marzo 1141: per una pezza di terra venne pagata allora una somma computata in trentasei soldi di buoni denari d’argento segusini30. La stabilizzazione come moneta di riferimento esclusivo del numerario di nuovo tipo nei documenti fu, da quel momento, incontrastata: in una vendita rogata in Chieri, sulla collina a est di Torino, nel maggio del 1143 il prezzo venne ancora espresso in moneta pittavina31; in tutto il resto della documentazione disponibile i valori monetari sono espressi in moneta coniata nella zecca di Susa32.

Ora, per completare il quadro della circolazione monetaria del Piemonte nord-occidentale, occorre interrogare i superstiti documenti relativi a Biella. I risultati di questa nuova indagine, pur sostenuta da una base documentaria assai povera, sono del più grande interesse se visti nel quadro dei dati disponibili per i territori contermini.

Dopo l’attestazione del pagamento di un ammontare fissato in moneta pittavina nel 110133, la prima carta utile appartenente alle collezioni biellesi riguarda in realtà un bene in Santhià. Il documento, del giugno 1114, venne però rogato a Gaglianico, villaggio poco a sud di Biella34. Si trattò della vendita di una terra «cum muras super abente» che Ufficia e suo figlio Otto fecero in favore di un Adam per ventinove buoni denari di conio milanese. La circo lazione di denaro milanese nel territorio che fa capo a Biella nel secondo decennio del XII secolo è confermata da una sola altra carta35, cui segue una [p. 35 modifica]vendita alla chiesa di Sant’Eusebio di Vercelli del gennaio 1126 di beni in Masserano, nella zona collinare ad est di Biella, al prezzo di due lire, tredici soldi e quattro nummos di moneta di Milano («denarios bonos Mediolanensis monetae»)36. Bisogna poi attendere sino agli anni quaranta per avere qualche altro dato. Si tratta di sole due carte, nelle quali si vede ancora usata come standard la moneta milanese, ora però etichettata come vetus, in analogia con le attestazioni novaresi, che però datano a partire dagli anni venti. Una delle due testimonianze37 ora citate è di un certo rilievo: un gruppo di uomini, probabilmente imparentati tra loro, rinunziarono in favore della collegiata di Santo Stefano di Biella alle loro rivendicazioni sulla chiesa di Sant’Eusebio di Biella, che insisteva sul territorio pievanale di Santo Stefano, e su certi beni terrieri che le appartenevano, ricevendone in cambio altri; si riservarono però sulla chiesa e beni cui rinunziavano un fitto annuale di due soldi «Mediolanensium veterum», che i canonici di Santo Stefano avrebbero dovuto loro pagare, una albergaria annuale e uno fodro regale di quattro soldi in moneta milanese. In caso di rottura dell’accordo gli uomini avrebbero dovuto pagare a Santo Stefano venti lire di denari vecchi di conio milanese38. Tra i testimoni alcuni o almeno uno di Novara, due o uno di Milano39.

Quest’ultima annotazione relativa ai testimoni costituisce un indizio ulteriore a supporto di quella che, dato lo stato delle fonti, resta poco più che una impressione: quella di una esposizione del territorio biellese alle influenze, che non furono forse solo monetarie, di ambiti territoriali nei quali circolava la moneta milanese, l’area novarese quindi o forse ancor più l’area milanese. Negli anni successivi la documentazione biellese, a parte una attestazione isolata ma rilevante di presenza di moneta pavese40, continua ad attestare il prevalere dello standard monetario milanese, ma le testimonianze a disposizione continuano a essere numericamente scarse: una vendita del 1167, una del 1170, un altro documento del 1171, uno del 1172 e un altro dello stesso anno in cui la moneta citata è l’imperiale41. [p. 36 modifica]

Mi soffermerò ancora un momento su un elenco di decime o forse misto di censi e decime che gli editori hanno datato approssimativamente al 115042. Intitolato «Breve recordationis canonicorum Sancti Stefani», è un elenco di luoghi, di persone e, verso la fine, di orrea cui vengono imputate cifre di denaro, o più raramente quantità di derrate, corrispondenti evidentemente alla decima che i canonici dovevano ricevere43. Le cifre in denaro sono ora espresse in modo generico («De Neutro XVIII solidos») ora in moneta pittavina (il primo item, fra gli altri: «De Montegrando solidos V Pictaviensium monete»). Questa attestazione di pagamenti pretesi in moneta pittavina consiglia di anticipare di mezzo secolo circa la datazione del documento in questione, vale a dire a un periodo anteriore al momento in cui si sa con certezza che nel Biellese circolava (anche) la moneta milanese (1114-1115), e vicino all’attestazione di moneta pittavina a Vercelli (1095) e a Biella (1101).

Note

  1. Cfr. sopra, testo corrispondente alla nota 33.
  2. Per un quadro della documentazione di area torinese si veda A. Olivieri, Geografia dei documenti e mobilità notarile nel Piemonte centro-occidentale (sec. XI), in «Bollettino storico bibliografico subalpino», 94 (1996), pp. 95-212.
  3. BSSS 2, pp. 26-28, doc. 19 (17 dicembre 1079, «in suprascripto loco Pinariolo ante ecclesiam prefati monasterii»): due fratelli insieme con la moglie di uno dei due promettono di non turbare il monastero nel possesso della corte di Mirandolo e del luogo detto Villare Endini sotto pena di cento libbre d’oro e di duecento lire di buoni denari di conio pavese.
  4. BSSS 3/2, pp. 187 sg., doc. 10 (14 febbraio 1091, «in vico Pinarioli»): Paganus de Valle Ferraria e sua moglie Otta investono l’abate di tutti i beni siti in Pinerolo e territorio che avevano dato in pegno a non meglio specificati homines, perché l’abate restituisse ai creditori il denaro in cambio del quale i beni erano stati obbligati e tenesse quindi gli stessi beni in pegno «sub eodem iure et potestate quo eisdem creditoribus subposite sunt». I due coniugi e i loro figli avrebbero potuto riscattare i beni ma avrebbero anche dovuto concedere al monastero il diritto di prelazione nel caso in cui avessero voluto vendere, permutare o appignorare sia le res «que infiduciate sunt» sia altri beni che avevano in Pinerolo e territorio. L’abate da parte sua concesse ai due coniugi un mulino posto in Pinerolo per tutto il tempo in cui avrebbero tenuto fede al patto stipulato con il monastero. La penalità in caso di rottura del patto venne fissata in venti lire di buoni denari d’argento pavesi. Un’aggiunta fuori tenore chiarì che il perfezionamento del patto aveva comportanto il pagamento di somme di denaro alla contessa Adelaide e al visconte, oltre che la restituzione del prestito ai già menzionati homines cui le res erano state infiduciate. Sulle cartule fiducie, cui nel documento probabilmente si allude, si veda il saggio di A. Ghignoli, Repromissionis pagina. Pratiche di documentazione a Pisa nel secolo XI, in «Scrineum Rivista», 4 (2006-2007) <http://scrineum.unipv.it/rivista/4-2007/ghignoli-pisa.pdf>.
  5. BSSS 45, pp. 48-50, doc. 38 (22 aprile 1083, «In civitate Taurini in palacio constructo super portam que dicitur Secusina»).
  6. BSSS 9, pp. 11 sg., doc. 4 (22 dicembre 1093, «infra solario canonice sancte Yporiensis ecclesie»); pp. 12 sg., doc. 5 (18 dicembre 1094, «infra ecclesia Sancte Marie»).
  7. BSSS 68, pp. 1 sg., doc. 1.
  8. SSS 45, pp. 51 sg., doc. 40: rogata nel 1088 a Chiomonte (non lontano da Susa). Tra le carte della canonica di San Lorenzo di Oulx, nell’alta valle di Susa, si ha una attestazione precoce di uno scambio in moneta pittavina nel 1075: BSSS 45, p. 32, doc. 26; cfr. anche BSSS 45, pp. 20 sg., doc. 20 (databile tra 1063 e 1092).
  9. Mancano anche documenti in cui somme di denaro siano prive dell’indicazione di conio, tranne che nel caso di una vendita del 1146 che ha il prezzo espresso in forma generica e la penale in moneta pittavina: cfr. nota 106.
  10. In quattro investiture di terre concesse tra il 1102 e il 1149 i censi annui, sempre espressi in moneta pittavina, vanno dai dodici denari per una vite e un campo in Pavone nel marzo 1102 (penale cento soldi pittavini), ai due soldi per una casa in muratura nel borgo di Ivrea nel 1118 (penale cento lire pittavine), ai complessivi trentasei denari (più altri canoni parziari e fissi in natura, diritti di ospitalità e prestazioni d’opera) dovuti per terre concesse a due uomini per massaricium dal monastero di Santo Stefano di Ivrea nel 1127 (penale cento soldi pittavini; per l’investitura venti soldi pittavini), ai quattro soldi per un manso in Palazzo concesso a due non coltivatori nel 1149. Si veda rispettivamente BSSS 9, pp. 13-15, docc. 6 e 7; BSSS 9/2, pp. 287 sg., doc. 5; BSSS 9, pp. 19 sg., doc. 12.
  11. BSSS 9, pp. 15 sgg., docc. 8, 9, 10, 11 rispettivamente del 1125, 1127, 1133, 1146.
  12. Si tratta in gran prevalenza di vendite, ma non mancano alcuni accensamenti (tutti della canonica cattedrale del Salvatore di Torino): BSSS 65, pp. 3 sgg., doc. 3 del 1099, doc. 10 del 1132; BSSS 86, pp. 33-43, doc. 18-20, 23, 25: cinque vendite datate tra il 1100 e il 1104; BSSS 86, pp. 44 sg., docc. 28 e 29 del 1110 e 1112; BSSS 69/3, pp. 153 sgg., docc. 14 e 21 del 1102 e 1134; BSSS 106, pp. 21 sgg., docc. 10, 12, 15 del 1110, 1118, 1124. Si veda anche, al limite cronologico e geografico di questa ricerca, BSSS 45, pp. 3 sg., doc. 2 (s. d. ma tra 1150 e 1161).
  13. Fondato dal vescovo Gezone nei primi anni dell’XI secolo: BSSS 44, pp. 1-5, doc. 1; cfr. G. Sergi, Potere e territorio lungo la strada di Francia. Da Chambéry a Torino fra X e XII secolo, Napoli 1981, pp. 103 sgg.
  14. La serie degli accensamenti del monastero di San Solutore inizia nel marzo del 1089, con una concessione di beni in Torino e oltre il Po per un censo annuale di diciotto generici denari d’argento (BSSS 44, pp. 37 sg., doc. 18), e prosegue poi fino al 1135 con censi di tenue entità (si va da diciotto denari a un solo denaro), fissati in denari pittavini o denari non etichettati, e per contro con penali di elevato ammontare che lo stesso concedente si obbliga a pagare al concessionario nel caso tentasse di sottrargli in tutto o in parte la concessione (si va da una lira a venti lire pittavine): BSSS 44, pp. 39 sgg., docc. 19, 23, 25, 26, 28, 31, 30 (l’ultimo è del 1135, il doc. 31 è del 1134). Anche nei pochi accensamenti della chiesa di San Benedetto la menzione della moneta pittavina è più costante nelle penali che nelle formule volte a fissare il censo annuale in denaro: ciò sin dalla prima di esse, dell’ottobre 1106, con la quale il prevosto Robaldo concesse a due coniugi beni in Torino, presso la porta Doranea, per un censo annuo di quindici denari generici, fissando come penale per se stesso la somma di cento buoni soldi pittavini (BSSS 86, p. 44, doc. 27). Gli accensamenti degli anni successivi furono di analoga concezione: BSSS 86, pp. 48 sgg., doc. 32 del 1126; BSSS 68, pp. 2 sg., doc. 4 del 1128; BSSS 86, pp. 49 sg., doc. 34 del 1136: in quest’ultimo caso la concessione è perpetua. Si vedano anche BSSS 106, pp. 36-39, docc. 19 e 20 del 1139 e 1145.
  15. In queste carte manca però la menzione di una somma pagata al momento della stipulazione del contratto. Essa è invece presente in due concessioni perpetue – tipologia rara nelle carte del Torinese – della canonica di San Benedetto, la prima a un individuo di un bene «ad usum et consuetudinem terris ipsius ecclesie Sancti Benedicti» per il quale pagò «pro investitura» trenta soldi computati in moneta pittavina, la seconda a un ospedale che pagò cento soldi non meglio specificati, in un documento in cui il censo venne fissato a tre soldi pittavini e la penale a trenta lire pittavine: rispettivamente BSSS 86, pp. 49 sg., docc. 33 e 34 del 1128 e 1136.
  16. BSSS 65, pp. 4 sg., doc. 4 del 1105; BSSS 36, pp. 11 sg., doc. 8 del 1114; BSSS 86, pp. 51 sg., doc. 36 del 1143 rogato a Chieri.
  17. Cfr. BSSS 65, pp. 7 sg., doc. 8 del 1116.
  18. BSSS 3/1, pp. 42 sg., doc. 21 (s. d. ma fine XI-inizi XII secolo): in una donazione al monastero di Santa Maria di Cavour l’autore eccettua «unum sedimen quod est in pignus pro VI solidis Pictaviensis et istud sedimen dedit tali tenore nepte sue ut ipsa eum redimat».
  19. BSSS 106, pp. 36-38, doc. 19 del 1139. Ancora nel maggio del 1143 una vendita stipulata in Chieri tra due coniugi e la chiesa di San Pietro di Rivetta ha il prezzo espresso in denari pittavini: BSSS 86, pp. 51 sg., doc. 36.
  20. BSSS 9, pp. 19 sg., doc. 12, cit. sopra a nota 105.
  21. BSSS 9, pp. 20 sg., doc. 13.
  22. Cfr. BSSS 9, p. 27, doc. 20: si tratta di una vendita del 1164, in cui agiscono nel ruolo di acquirenti gli eredi di uno dei due prestatori che presero in pegno nel 1151 gli otto iugeri di arativo appena citati a testo, in cui il prezzo venne pagato parte in moneta segusina, parte in moneta pittavina. Questo documento fa parte, insieme con quello citato alla nota precedente, di un interessantissimo gruppo di carte che documenta l’attività di una famiglia di prestatori eporediesi. Si veda anche BSSS 9, pp. 21 sgg., docc. 14, 16, 23.
  23. D. Promis, Monete reali di Savoia, I, Torino 1841, pp. 1 sg., 60; cfr. BSSS 106, pp. 43 sg., doc. 44 del 18 giugno 1164.
  24. BSSS 45, pp. 93 sg., doc. 91 (2 aprile 1109, «Apud Aviliana»): «et insuper penam librarum decem denariorum bonorum Secusiensium». Cfr. G. Vernazza, Della moneta Secusina, Torino 1793, p. 8. Previté Orton, The Early History cit. (sopra, nota 2), p. 276, in un sintetico accenno relativo alla zecca di Susa ne attribuì la fondazione a Uberto II sulla base dell’opera di Promis (cit. alla nota precedente) e, in particolare, del documento da questi citato e datato erroneamente al 1104, che portava a concludere che i denarii Secusienses non potevano certo essere stati coniati per la prima volta nel corso della minorità di Amedeo III; del fantomatico documento del 1104 non potè, naturalmente, prendere diretta visione, mentre citò dalla stessa edizione qui utilizzata il più tardo documento del 1109.
  25. BSSS 45, p. 111, doc. 110 (23 maggio 1132, «ultra fluvium Padi ad locum ubi dicitur Muline»). Un altro documento, risalente al 1118, menziona la moneta Valentiniensis (di Valence, sul Rodano), ma si tratta dell’appignoramento di un censo percepito su una chiesa della Vallouise (Delfinato) da parte dell’arcivescovo di Embrun: BSSS 45, pp. 100 sg., doc. 100.
  26. BSSS 3/2, pp. 192 sg., doc. 16, rivisto sull’originale in Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Novalesa San Pietro, mazzo 2/2, n. 35. La data è «+ Anno dominicę incarnacionis millesimo CXX[V]IIII, pridie nonas ianuarii, feria VI», ovvero 4 gennaio 1129 che era appunto un venerdì, ma sono possibili altre letture del millesimo. Il millesimo proposto dall’editore Baudi di Vesme, 1123, è manifestamente errato; Vernazza, Della moneta Secusina cit., pp. 7, 32 data 4 gennaio 1128.
  27. La meala, altre volte mealha o medalla, è una moneta divisionale del denaro, più spesso detta obolus, corrispondente in genere alla sua metà o poco meno: cfr. Bompaire-Dumas, Numismatique médiévale cit., p. 292. Il rilievo dell’attestazione di una produzione di moneta divisionale nella zecca di Susa non va sottovalutato: cfr. Dumas-Dubourg, Le trésor de Fécamp cit., pp. 63-65 e, in particolare, Toubert, Il sistema curtense cit. (sopra, nota 3), pp. 53 sg.
  28. BSSS 44, pp. 50-52, doc. 29 (23 agosto 1131, «in civitate Taurini in domo Iohannis Baderii»): Amedeo «comes Taurinensis» investe l’abate del monastero di San Solutore di Torino dei beni che i suoi predecessori avevano donato al monastero siti in Coazze, Giaveno e in altri luoghi vicini; la penalità che il conte si impegna a pagare in caso di violazioni viene fissata in cento lire di moneta pittavina. BSSS 68, pp. 3 sg., doc. 5 (9 gennaio 1137, «in castello quod Avillana vocatur»): Amedeo «comes et marchio» insieme con sua moglie e suo figlio Umberto concede la salvaguardia alla canonica dei Santi Pietro e Andrea di Rivalta; a chi turberà la pace della canonica verrà irrogata una pena di cento lire di moneta pittavina. Cfr. Sergi, Potere e territorio cit., pp. 75, 81.
  29. Haverkamp, Herrschaftsformen der Frühstaufer cit., p. 587. Un esemplare della conferma del marzo 1147 del conte Amedeo III di Savoia e di suo figlio Uberto al monastero di San Giusto di Susa della dotazione fatta all’atto della fondazione del monastero da parte di Olderico Manfredi, sua moglie Berta e suo fratello Alrico vescovo di Asti (cfr. C. Cipolla, Le più antiche carte del monastero di S. Giusto di Susa (1029-1212), in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano», 18 [1896], pp. 68-75, doc. 1 del luglio 1029) reca in calce una dichiarazione di Amedeo di avere ricevuto dall’abate «de bonis iamdicte ecclesie» undicimila soldi segusini come finanziamento della crociata alla quale si accingeva a partecipare: Archivio di Stato di Torino, Corte, Materie ecclesiastiche, Abbazie, Susa San Giusto, mazzo 2/2, n. 4. Cfr. Previté Orton, The Early History cit., pp. 309 sg. Per il rilievo che nella storia monetaria del tardo XI e XII secolo ha il finanziamento da parte degli enti ecclesiastici delle imprese di grandi signori territoriali si veda, oltre a Spufford, Money and its use cit., pp. 98 sg. che pone in particolare rilievo proprio il finanziamento delle crociate, H. van Werveke, Monnaie, lingots ou marchandises? Les instruments d’échange aux XIe et XIIe siècles, in «Annales d’histoire économique et sociale», 4 (1932), pp. 452-468.
  30. BSSS 68, p. 4 sg., doc. 6 (15 marzo 1141, «in Marconada»).
  31. Cfr. sopra, nota 114.
  32. BSSS 68, pp. 5 sg., doc. 7; BSSS 65, pp. 11 sgg., docc. 13-19; BSSS 106, pp. 38 sg., doc. 20; BSSS 86, pp. 45 sgg., docc. 30, 37, 38; BSSS 44, pp. 55 sgg., docc. 33-36; BSSS 68, pp. 6 sg., doc. 8.
  33. Ch. II, col. 189 sg., doc. 148.
  34. BSSS 103, pp. 6 sg., doc. 4 («in loco Galganeto», lettura da correggere in «Galganeco»).
  35. BSSS 103, pp. 8 sg., doc. 5 (1° aprile 1115, «in loco de Bugella»): il chierico Sienfredo e Alberada e il figlio di quest’ultima vendono a Gisulfo figlio del chierico Lanfranco un campo nel territorio del villaggio di Chiavazza al prezzo di quattro soldi di conio milanese, con il patto che si paghi a Sienfredo un denaro finché vivrà, da pagare poi, dopo la sua morte al monastero di Santo Stefano di Vercelli.
  36. BSSS 70, pp. 107 sg., doc. 90 («intus castro Pino»).
  37. L’altra è BSSS 103, pp. 10-12, doc. 7 (17 aprile 1141, «in loco Quiregna»): i coniugi Vuala e Icisla vendono a Donzello e suo figlio un mulino sul torrente Cervo in Biella al prezzo di quattro lire e mezza di moneta milanese veteris.
  38. BSSS 105, pp. 3 sg., doc. 2 (4 dicembre 1147, «in curte predicti Vuidalardi»). Il Vuidalardo della data topica è l’autore principale della refuta: «(...) per lignum et cartam quod manibus suis tenebant Vuidalardus et Rolandus pater et filius et Gonellus filius quondam Maifredi et Ubertus filius quondam item Uberti et Iordanis invicem fratris sui nepotes suprascripti Vuidalardi (...) finem et refutationem fecerunt (...)».
  39. «Signa ma ++++ nuum Uberti Bellati et Mainfredi et Simeonis et Olrici de Novaria et Attonis et Petri de Mediolano. Et interfuere presbiter Bonusiohannes de Buiella et Petrus Descariatus et Simon sotii et fratres predictorum canonicorum».
  40. BSSS 103, pp. 15-17, doc. 10 (26 novembre 1153, «in loco Bugelle»): Pietro detto «de Sandiliano» vende al prete Pietro, massaro di Biella, tutto ciò che ha nel territorio di Chiavazza al prezzo di trentaquattro denari nuovi di Pavia.
  41. Rispettivamente BSSS 103, pp. 20 sgg., docc. 13, 14, 15, 16, 17. Per la moneta detta imperiale si veda innanzi tutto Haverkamp, Herrschaftsformen der Frühstaufer cit., pp. 590 sgg.; cfr. anche Travaini, La moneta milanese tra X e XII secolo cit.
  42. BSSS 103, pp. 12-14, doc. 8. Un altro elenco, anch’esso assegnato al 1150 circa e intitolato «Breve de luminaria Sancti Stefani ad memoriam retinendam», è meno utile a questa ricerca: BSSS 103, pp. 14 sg., doc. 9.
  43. In alcuni casi il richiamo alla decima è esplicito: «De decima Capudloci. / Decima presbiteri Rozonis. / Decima feudi Ponzonis».