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SCENA V

Eleno e Andromaca.

Eleno. Molto, Andromaca, speri.

Andromaca. Eleno, or ti sovvenga
che tu e Cassandra, entrambi
pieno del divo Apollo il petto e l’alma,
presagiste che morte
sovrastava da Ulisse al mio Astianatte.
Eleno. E che a lui sol potea dal colpo estremo
Telemaco esser scudo.
Andromaca. Oh ben temuti
presagi ! Io rapir feci
in Itaca il fanciullo. Ecco vicino
il periglio e il riparo. Ulisse tremi.
Eleno. Intendo. È tuo pensier che in sen del figlio
non conosciuto, incrudelendo il padre,
diventi tua salute il suo delitto.
Andromaca. Guardimi il ciel! Qui non è Grecia, ed io
esser misera posso,
empia non mai. Confonderò d’ Ulisse
l’odio, onde incerto tra il suo figlio e il mio,
né l’un sappia abbracciar, né servir l’altro,
e tra rabbia ed amor peni e deliri.
Eleno. Ingegnosa pietá! Ma pur ti giovi
celar la bella coppia e dirla estinta.
Andromaca. Mei crederá? Troppo è sagace. Il tempio
non è sicuro asilo e non rimane
di si vasta cittá tanto che basti
a occultar due fanciulli.
Eleno. Intatta ancora
sta d’ Ettore la tomba.
Andromaca. Ah, che un freddo sudor mi va per Tossa.
Temo l’augurio del feral soggiorno.