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i divoratori 393


— Piuttosto no, Liebstes, — sussurrò.

L’Arbitro aveva parlato.

Aldo non disse che poche parole a Nancy. Posò la mano sul capo della bambina e la guardò a lungo. Poi si volse bruscamente, prese il suo cappello e uscì dalla stanza.

— Che strano uomo! — disse Anne-Marie. — Era davvero mio padre?

Nancy, colle labbra bianche, disse: — Sì.

— Ne sei proprio certa? — domandò Anne-Marie; e, quasi senza volerlo, rialzò gli occhi verso il pallone.

— Sì, cara, — disse sua madre; e pianse.

Ma Anne-Marie era volata alla porta.

— Papà! — gridò coll’acuta voce argentina.

Aldo, già a metà scala, udì e si fermò. Il cuore gli balzò in gola, e le sue mani strinsero la ringhiera.

— Papà!

Aldo si volse, esitante, non osando credere, non osando sperare.

E ancora squillò quella soave chiamata infantile:

— Papà!

Aldo si volse, e risalì le scale. Era cieco, era pazzo di felicità. Barcollando e tremando s’avviò per il corridoio verso la porta aperta. Sulla soglia, aureolata di luce, lo aspettava la sua bambina.

— Papà, — disse Anne-Marie (e ancora la parola e la voce puerile strinsero la gola ad Aldo in un singhiozzo di felicità). — Vuoi essere tanto buono?

— Sì! — disse Aldo, pallido e solenne.

— Allora... prima di andartene tira giù il mio pallone! Tu che sei alto, ci arrivi...


Aldo tirò giù il pallone. Poi se ne andò. Fuori dalla stanza — fuori dalla loro vita — fuori dal racconto.

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