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i divoratori 117


Clarissa diede in una forte e aspra risata.

— Già. Questo lo farai semplicemente per tuo piacere. Farceur, va!

Aldo inarcò con noncuranza le perfette sopracciglia e non rispose.

— Lo sai pure che non ha un soldo, non il becco d’un quattrino.

— Oh, avrà pure qualche cosa, — disse Aldo affettando di sbadigliare. — E poi è un genio, e guadagnerà quello che vuole.

— Tu sei un perfetto porco, — disse Clarissa, risdraiandosi nell’amaca e chiudendo gli occhi.

Il perfetto porco si alzò con aria sdegnosa e la lasciò.

Entrò in casa, prese il cappello e il bastone, e uscì, passando dal giardino all’arsa strada maestra. Andò all’imbarcadero, dove trovò un battello che partiva per Laveno. Egli vi salì, e a Laveno prese il treno per Milano.

Pranzò al Savini, con eccellente appetito.

— Intanto quelle lì si roderanno, — pensò. — Meglio. ... Così impareranno!

Passeggiò un’ora in Galleria, poi andò a casa e dormì bene.

Intanto, nella villa Solitudine, «quelle lì» si rodevano. ... E imparavano.

Nancy imparò che il giardino chiuso in cui aveva appena gettato uno sguardo era l’unico giardino nel mondo in cui ella desiderasse di entrare. Imparò che le parole che Aldo non aveva dette erano le uniche parole che ella desiderasse di udire. Imparò a credere che certo, dietro la portentosa bellezza di lui, stavano, mute, forti, inamovibili, anche la perfetta bontà e l’austera rettitudine, come leoni di marmo al cancello di un palazzo.

E Clarissa imparò che bisogna adattarsi al destino e accettare l’inevitabile; che è meglio aver mezza michetta