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capitolo ii. 79

Luigi Berghem m’ha fatto servigio perfezionando l’arte di lavorar le pietre dure; così ho potuto pulire e forare queste!

Mastro Zaccaria così dicendo teneva in mano pezzi d’orologeria di cristallo tagliato e di lavoro squisito. Le ruote, i perni, il tamburo erano della medesima materia, ed in quel lavoro di massima difficoltà aveva dato prova d’un talento da non dirsi.

— Non è vero, soggiunse egli facendosi di porpora in volto, non è vero che sarà bello veder palpitare questo orologio attraverso il suo invoglio trasparente, e poter contare i battiti del suo cuore?

— Scommetto, padrone, rispose il giovane operaio, che non varierà d’un secondo all’anno.

— E scommetteresti a colpo sicuro! Non ho io forse messo là dentro il meglio di me medesimo? E forse che il mio cuore varia?

Aubert non osò levare gli occhi in volto al maestro.

«Parlami schietto, soggiunse melanconicamente il vecchio, non m’hai tu preso mai per un pazzo? Non mi credi tu talvolta in balia delle più disastrose mattezze? Sì, non è vero? Negli occhi di mia figlia e ne’ tuoi io ho letto spesso la mia condanna! Oh! esclamò dolorosamente, non essere nemmeno compreso dagli esseri che più si amano al mondo! ma a te Aubert, proverò vittoriosamente che ho ragione. Non crollare il capo, perchè sarai stupefatto. Il giorno in cui tu saprai ascoltarmi e comprendermi, vedrai che ho scoperto i segreti dell’esistenza, i segreti dell’unione misteriosa dell’anima e del corpo.

Così parlando, mastro Zaccaria si mostrava superbamente fiero. Gli brillavano gli occhi d’un fuoco soprannaturale e l’orgoglio gli scorreva abbondante nelle vene. In vero se mai vanità avesse potuto essere legittima, sarebbe stata quella di mastro Zaccaria. In fatti l’orologeria, infino a lui, era rimasta quasi nell’infanzia dell’arte. Dal giorno in cui Platone (400 anni prima dell’èra cristiana) inventò l’orologio notturno, specie di clepsidra che indicava le ore della notte col suono d’un flauto,