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384 DISCORSO SUL TESTO DEL lOEMA DI DANTE.

parole e parole le particelle che hanno suoni senza pensiero. Quindi gli Alessandrini alle strette fra Omero e gli Attici ^ e non s’ attentando di svilupparsene, emendarono V Iliade così che ne nasceva lingua e verseggiatura la quale non è di poesia né primitiva né raffinata. 1 Greci ad ogni modo s’ aiutavano tanto quanto come i Francesi e gl’Inglesi; ed elidendo uno o più segni alfabetici nel pronunziare, non li sottraevano dalla scrittura; cosi le apparenze rimanevano quasi le stesse. Ma che non pronunziassero come scrivevano, n’ è prova evidentissima che ogni metro ne’ poeti più tardi, e peggio negli Ateniesi, ri- donderebbe; né sarebbero versi, a chi recitandoli dividesse le vocali quanto il metro desidera ne’ libri Omerici; e l’esametro (ìaWIliade s’accorcerebbe di più d’uno de’ suoi tempi musicali, se avess3 da leggersi al modo de’ Bisantini, snaturando vo- cali, costringendole a far da dittonghi. Però i Greci d’oggi, a’ quali la pronunzia letteraria venne da Costantinopoli, e ser- basi nel canto dellu. loro Chiesa, porgono le cbnsonanti armo- niosissime; ma non versi, poiché secondano accenti semplici e circonflessi, e spiriti aspri, e soavi; — come che non ne aspi- rino mai veruno — ed apostrofi ed espedienti parecchi molti- plicatisi da que’ semidigammi ideati in Alessandria, talor utili in quanto provvedono alla etimologia e alle altre faccende della Grammatica. Non però é da tenerne conto in poesia, dove la guida vera alla Prosodia deriva dal metro; e il metro di- pendeva egli fuorché dalla pronunzia nell’età de’ poeti? Ad ogni modo i grammatici greci sottosopra lasciarono stare i vo- caboli come ve gli avevano trovati, si che ogni lettore li pro- ferisse peggio meglio a sua posta. Ma i Fiorentini, non ri- cordevoli di passati o di posteri , uscirono fuor delle strette medesime con la regola universale — che la scrittura non si allontani dalla ’pronunzia un minimo che; — e non trapelando lume, né cenno di pronunzia certa dalle scritture, pigliarono quella che udivano. Però mozzando vocali, e raddoppiando con- sonanti, e ajutandosi d’ accenti e d’apostrofi, stabilirono un’or- tografia, la quale facesse suonare all’orecchio non Io, né lo Imperio, o lo Inferno; ma /’, lo’ìslpero, lo’ì^/erno: e con mille altre delle sconciature del dialetto Fiorentino de’ loro giorni, accorciarono versi scritti tre secoli addietro.

CCX. Queste loro squisitezze erano favorite dalla dottrina, che la lingua letteraria d’Italia fioriva tutta quanta nella loro città. Lasciamo che ove fosse vera, s’ oppone di tanto alle dot- trine di Dante, che non sarebbe mai da applicarla ad alcuna delle opere sue K Ma avrebb’ essa potuto applicarsi se non da critici eh’ avessero udito recitare i versi di Dante a’ suoi giorni, e non da tutti recitatori, bensì o da esso o da tale a cui egli avesse insegnato il modo di porgerli ? Anche a que’ dì la pro-


1 Vedi aielro, sezz. CXXII e CXXV.


DISCORSO