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XL

Mia carissima amica, Ricevo la vostra ultima lettera, e, se m’incresceva di non averla ricevuta prima, ciò era perché temeva che il prof. Zambelli avesse potuto non recarvi la mia. Le notizie della vostra salute non sono in veritá quelle che desidero; ma una voce interna mi conforta, e mi fa sperare la vostra guarigione. Il mio stato è sempre lo stesso; le gambe mi servono sempre male, ma in tutto l’inverno assai meno che nell’estate. In tutto il resto non posso dolermi; e sono rassegnato allegramente alle condizioni di questa mia vita. La cagione vera del mio non esser venuto in Roma nell’anno trascorso fu l’inclemenza del tempo: noi non abbiamo avuto estate del 1843 in Napoli. Un vento sempre molesto e un cielo sempre dubbioso appena mi permettevano d’uscire; come avrei potuto venire in Roma, per quanta voglia ne avessi avuto? L’orrida stagione del 1843 fu seguitata da una grippe universale: mia madre l’ebbe; poi questa degenerò in un arresto al petto, e noi l’abbiamo avuta moribonda. Il buon dottor Mannella ci ha dimostrato la sua antica amicizia e dice sempre che, di quel male, a 78 anni, di cento inferme ne muore un 99. Ora mia madre sta meglio di prima. Non appena ella si vide fuori di pericolo, che le mie gambe m’abbandonarono: mi venne la solita febbre, che mi suol tenere immobile per lungo tempo.

Ed ecco Giovannina soprappresa da un’emorragia, che la costrinse parimenti a starsene a letto. Per cinque giorni adunque, niuno di noi potè vedere l’altro, abitando tutti nella medesima casa. Anche Giovannina è ristabilita ora; ed io mi vado trascinando nella mia stanza sulle mie deboli gambe. Non una sola copia, ma venticinque della lettera, che vi ho scritta, vi saranno consegnate. Ne manderete ad Eduardo, che abbraccio; a Concioli, di cui quivi si parla; a Giacinta; a