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tornarsi ad adagiare sugli antichi scanni; ordinarsi la milizia cittadina; decretarsi gli aiuti ai lombardi; vincersi gli smoderati desideri delle moltitudini e gl’impeti ciechi (se pur ve n’ebbe) de’ «bunachi»: stendersi la mano amica per provvedere a tutti i bisogni dello stato; questa è la vera, questa l’immortale vittoria de’ siciliani, piú che non l’aver saputo resistere a pochi soldati napolitani che pensavano come gli abitanti di Palermo. Compiuta che i siciliani ebber quest’opera, stettero saldi nel loro dritto, fortuneggiando per piú di un mese tra Tonde civili; fino a che non trassero al porto la sbattuta loro nave; poi dettero al mondo il caro esempio di non essere giunti a quel porto se non per tornare agli antichi onori la lor costituzione. A tanta gloria non mancano se non gli amichevoli accordi con Napoli; e Ruggiero Settimo, non un principe Coburgo, venuto al governo dello stato col titolo di presidente, saprá formarli si che i siciliani dritti siano collocati sopra saldissime basi, e quei del re solennemente riconosciuti, secondo la costituzione del 1812. Cara Sicilia! Su questi accordi poserá sicura l’indipendenza d’Italia. (sará continuato) (*).

(1) Ma non potè esser continuato, perché il 3 aprile 1848 Carlo Troya fu nominato presidente del consiglio dei ministri; il 15 maggio non l’era piú.