Pagina:Troya, Carlo – Del veltro allegorico di Dante e altri saggi storici, 1932 – BEIC 1955469.djvu/208

Lettera sesta

Si, noi siamo amici, e giova ripeterlo: e voi, mio amico, vedrete che so parlare da senno. La vostra lettera del 21 e del 22 mi è stata oltremodo carissima. Voi per altro siete colpevole di soverchia parzialitá pel nuovo amico. E come in veritá credere che queste mie lettere sieno scritte in guisa che possano leggersi all’accademia di Torino? Da una altra parte quasi mi fate il torto di pensare ch’io ignori quanta e qual sia quest’accademia, e quant’onore sia sempre venuto da lei all’Italia nostra. Io dunque presentarmi con queste mie lettere cosi prolisse, cosi malconce, cosi piene di ripetizioni ad un consesso di tanti dotti quanti pur ne accoglie Torino? Di tanti che in parte io giá conosco, e ne scriveva non ha guari al conte Sclopis? No: abbiate pietá dell’amor proprio di questo nuovo amico vostro. L’abate Bonelli, che io reputo l’uno dei piú profondi ragionatori d’Italia, saputo che fra noi vi era un carteggio sulle nostre opinioni storiche: — Perché — disse —perché non si stampano le lettere dell’uno e dell’altro? Sarebbe questo — aggiungeva — la miglior parte del codice diplomatico longobardo! — Ed anche io forse il credeva ed il credo; ma bisognerebbe rifar le lettere con questo speciale proponimento. Che se alcuno dei nostri amici di Torino, quando noi avremo posto fine alle nostre discussioni sulla condizione dei vinti romani, volesse istoricamente ritrarre dalle mie lettere le mie principali ragioni e contrapporvi le vostre difficoltá e quelle del conte Sclopis e di qualunque altro degli amici vostri, qual piacere, qual giovamento non sarebbe questo per me? Da cinque anni che io vo studiando la condizione dei romani vinti, posso giurare che di nulla sono stato mai tanto avido quanto di obiezioni e d’essere contradetto da uomini dell’arte nostra: in breve io le darò una prova del modo con cui sono stato coni-