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Lettera terza

Chi avrebbe ardito sperarlo? Ella mio caro conte, con la sua lettera dell’8 dicembre mi profferisce l’amicizia sua; quale dono per me! Appena io credo alla mia ventura: ma io voglio meritarla; e com’ella è cosa che m’importa non meno e forse piú dei miei studi, cosi mi par necessario formarla sopra solide basi e durevoli, dicendo a lei qualche cosa dell’esser mio: affinché poi ella vegga se veramente me la vuol concedere questa sua preziosa amicizia. Ed io conosco lei assai piú ch’ella non conosce me: lei autore approvato e che va per le bocche degli uomini: lei che ho potuto veder dipinto in due volumi di una storia che non perirá: lei finalmente che giá io sentiva lodare per le quattro novelle e per la traduzione di Tacito, quantunque non avessi letto giammai quegli scritti. Ed il nome, ch’ella porta, di Balbo mi diceva e mi dice il resto. Queste cose non sono in me; né io posso altrimenti esserle noto se non per le lettere che le andrò scrivendo. Fra gli errori ed i piaceri di una tempestosa e bollente gioventú, anche io lungamente ho «volterizzato» e sono stato anche io l’uno di quei «voltereschi ciancerelli tanti», dei quali toccava il nostro tragico nelle satire. Onde io a quella maniera giá mi pensava di saper la storia, e credeva e diceva tali stoltezze che ormai fanno arrossirmi, oggi che giá discendo pel mio anno quarantesimo sesto. Ma i miei errori, no, non furono codardi giammai. Avverso alla dominazione dei francesi nella mia patria, tacqui sdegnoso fino alla loro andata nel 1815, e fui sempre lontano dalle ambizioni, alle quali aprivasi allora campo larghissimo. Tacqui parimenti dopo la ristorazione fino al 1820, segregato affatto dal mondo e dato solo a pochissimi amici. Dispregiatore di qualunque setta politica; il rivolgimento di Napoli nel 1820 non fu né preveduto né approvato da me: pur quando esso fu celebrato