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più nobile o più potente di te; ora a quel che vedo, sei mangiato dai vermi.

Quest’appello, in cui l’anima non faceva prova di cortesia, fu fatto in francese; ma nel dialogo che segue, l’anima come più letterata parla sempre in latino: il corpo, umile argilla, risponde in volgare.

Il corpo, come se fosse vivo, alza il capo e domanda piangendo chi lo svegli: l’anima ripiglia, rivolgendogli una mezza dozzina d’epiteti poco parlamentarii, (i men tristi dei quali sono fetore, lue, massa di polvere, ecc.,) e gli chiede che ne sia della sua vita così splendida.

Il corpo, così morto com’è, si risente a tanti oltraggi e rammenta all’anima che quel parlare è troppo ardito.

Tu pues bien regarder que plus ne sus en vie
Et ne puis plus mener feste ne druerie

Tu puoi ben vedere che più non sono in vita, e che più non posso menar festa nè tripudio.

Ma l’anima è pettegola e ciarliera, e intende pure sfogarsi una buona volta, maltrattando con parole quel corpo che la condusse a mal fine; onde continua a dire: O corpo fetido, chi ti prostrò a questo modo? o corpo avido, chi ti disseccò, qual orrendo misfatto a tale ti ridusse, perchè la morte così presto ti deturpò?

Poteasi indovinar la risposta: Bellezza, bontade, nobiltà e forza la morte tutto mi tolse; somiglio una scorza svelta a forza da un albero e gittata a terra.

L’anima. A te jeri era soggetto il mondo, tutta la provincia ti temeva; dov’è ora il tuo seguito? Ecco la tua gloria dissipata.

Il corpo. Troppo onore ebbi veramente al secolo, e dovizia d’oro e d’argento, di mangiari e di famigli; ora sono in grande orrore in questo putrido ridotto, dove i vermi mi attanagliano come serpi.

L’anima. Non sei più fra le torri di pietre squadrate, nè in palazzo capace, ma in picciol feretro, e vicino ad esser collocato in piccola tomba.