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V’archi. Adunque una cosa medesima può essere differente tra sé, considerata secondo diversi atti?

Tullia. Messer si. Ma che volete inferir per questo?

Varchi. Che quello, che vi pareva poco fa impossibile e falsissimo, è ora verissimo ed agevolissimo per lo essempio datovi.

Tullia. Si, ma io vi dirò il vero. Quando si favella di cose mortali, non mi par ben fatto che si entri nelle divine, perché la perfezzione loro è tanto grande che noi non potremo intenderle, ed ogniuno può dirne a suo modo.

Varchi. Ben dite, ché dalle cose mortali alle immortali è troppo gran salto, non vi essendo comparazione né proporzione alcuna: e di Dio non potemo intendere altro se non che egli è tanto perfetto, che non potemo intenderlo, e niuno basta ad adorarlo, non dico come merita la bontá sua, ma come richiede il debito nostro. Ma noi non parliamo forse di cose mortali, come pensate, parlando di Amore.

Tullia. Io me lo so, né voleva significar cotesto. Voi mi intendete ben voi. Datemi essempi che si possano intendere.

Varchi. Che stimate voi che sia piú degna cosa: o Tesser padre o Tesser figliuolo?

Tullia. L’esser padre. Ma, per l’arnor di Dio, non entriamo nella Trinitá.

Varchi. Non dubitate. Adunque uno che avesse padre e figliuoli, come se ne trovano molti, sarebbe come padre piú degno di se medesimo che come figliuolo?

Tullia. Non si può negare. Ma non veggo perciò come queste cose, ancora che vere, facciano a proposito del nostro dubbio.

Varchi. Voi lo avereste a vedere. Dico che i verbi ed i nomi, considerati realmente e per sé, come dicono i filosofi, sono in effetto una cosa medesima, e cosí non sono piú nobili gli uni che gli altri; ma, considerati poi i verbi con quella giunta di tempo, che deste loro voi medesima poco fa, e come significano azzione o passione, la quale non può essere senza qualche sustanza o assistenza, che significano i nomi, dico che i verbi sono men perfetti. Avetemi inteso ora?