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non va preso sul serio; questa scena, è una parodia; cioè un gioco, uno scherzo. — Ma in arte non si gioca, non si scherza fuori di luogo. L’arte non è meno seria della vita. Nella illusione, nella convinzione infusa in cuore agli spettatori che essi assistono a veri eventi, e non già a finzioni, consiste il fàscino supremo d’un dramma. Ma se l’autore mostra di non credere alla verità dei suoi fantasmi, perché ci dovrà credere lo spettatore, perché dovrà commuoversi? Qui acquista il suo pieno diritto il si vis me flere d’Orazio. E con l’intrusione d’una polemichetta, d’un pettegolezzo, Euripide frange l’illusione, senza riparo. Non avrà peccato contro Eschilo, ma ha peccato contro l’arte.

E il dramma ne riesce macchiato. E questa mancanza di serietà, che non di rado si riscontra nell’opera d'Euripide, ne costituisce una delle innegabili debolezze.

E c’è anche l’aggravante che i suoi appunti ad Eschilo sono d’un gretto razionalismo. E poi, si potrebbe rispondere con Figaro: a pedante, pedante e mezzo. Se è inverosimile che Elettra accetti per segno di riconoscimento il colore dei capelli, neppure convince che accetti come prova definitiva l’unica offertale del vecchio servo: una cicatrice sul ciglio.

Ed ora si potrebbero allineare i soliti difetti, comuni a tutto il teatro d’Euripide, e alcuni dei quali, per esempio lo spirito sofistico e razionalistico, appaiono qui in buona misura. Ma lo abbiamo già fatto altre volte; e ciascun lettore potrà facilmente rilevarli, e valutarne l’importanza.

Piuttosto, potrebbe riuscire specialmente interessante, per questo dramma, una antologia di giudizi critici: perché a proposito dell’Elettra la teratologia filologica ha compiuti, dallo