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tante dal lato artistico (di mole sono pressoché uguali), è posto proprio al principio della tragedia1.

Una gran novità, abbiamo detto. Infatti il racconto dell'araldo, raro in Eschilo (lo troviamo solo ne I Persiani e nell’Agamennone, e in quest'ultimo ha carattere un pò speciale), nel teatro di Sofocle viene determinando la sua forma, il suo ufficio (narrare la catastrofe, che non doveva esser posta sotto gli occhi degli spettatori), e di conseguenza la sua posizione obbligata, dopo la catastrofe, alla fine del dramma.

Ma ancora in parecchi drammi di Sofocle (Aiace, Filottete, Elettra: tre sui sette residui) la narrazione manca. In Euripide, invece, si può dire che è divenuta canonica. Tanto piú dovettero rimaner sorpresi gli spettatori, quando lo videro addirittura al bel principio dell’azione, súbito dopo l’ingresso del coro.

E assai caratteristico e d’elegante simmetria ne riesce il taglio della tragedia: un gran terzetto centrale, fra due pittoresche floride narrazioni. Il resto, le poche scene drammatiche e i bei canti corali, sono come un calice che sostenga quel brillante fiore a tre petali.

Le mie osservazioni sono volte a caratterizzare e non già a condannare. Certo l’Ifigenia non presenta i caratteri che sogliono rendere prontamente persuasiva un’azione drammatica. Ma, d'altronde, ogni formula che voglia stabilire a priori le leggi del dramma, come di qualsiasi tipo d’arte, è necessariamente erronea. Anche questa concezione d’Euripide è alta e nobile, e tale rimarrebbe anche se nell’esperimento scenico

  1. Due ne troviamo anche nelle Baccanti. Ma il primo è già verso la metà dell’azione. E le Baccanti sono l’ultimo lavoro di Euripide.