Pagina:Tragedie di Euripide (Romagnoli) III.djvu/187

184 EURIPIDE

mi guarderanno, e lungi mi terranno
con questi di parole amari pungoli:
«Non è costui di Giove il figlio, quello
che figli e sposa uccise? E non andrà,
lungi da questa terra, alla malora?»
Per l’uom che un giorno detto fu beato,
ogni rovescio è doloroso: quello
che ognor fra i mali si trovò, non soffre:
ché seco la sciagura a un parto nacque.
Ed a tal punto di sciagura io sono,
che sin la terra parlerà, divieto
mi farà, ch’io tocchi il suo grembo, e il pelago
ch’io l’attraversi, e i valichi dei fiumi;
e sarò pari ad Issïon, che gira
alla sua ruota avvinto. E questo è il meglio:
piú nessuno veder me degli Ellèni
debba, fra cui lieto e felice io vissi.
Dunque, viver perché? Mi giova forse
una vita serbare empia ed inutile?
Di Giove or danzi pur l’illustre sposa,
faccia suonar, col suo calzare, il lucido
pavimento d’Olimpo: a fine addusse
il suo disegno: essa abbatté, scalzò
da sommo ad imo il primo eroe de l’Ellade.
Ad una tale Dea, chi mai preghiere
rivolgere vorrà? Per una donna,
per gelosia del talamo di Giove,
essa l’uomo abbatté ch’era de l’Ellade
benefattore, e immune era di colpe.
teseo
Era t’infligge questa prova, sappilo
sicuramente, la sposa di Giove,