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dono, o dovrebbero rendere addirittura insopportabile la sua figura.

Eppure, non è cosí. Al saggio inappellabile del reiterato esperimento scenico, Admèto riesce tollerabile. E la scena, disgustosa tanto alla considerazione logica quanto alla lettura, nella quale padre e figlio, rinfacciandosi a vicenda il loro egoismo, gracidano come due tristi corvi sui cadavere della vittima, è tra quelle che nella esecuzione riescono piú commoventi e costantemente coronate del piú fervido consenso.

È strano. E se ne ricerco la ragione, mi pare che non possa consistere se non in ciò, che tanto la psicologia d’Admèto quanto quella del padre hanno profonde radici nel vero. Anche nella vita esistono creature dotate di spirito di sacrificio (le piú, le veramente eroiche). Ma sono una povera minoranza. Un uomo qualsiasi della gran maggioranza, posto nella condizione d’Admèto, certo non farebbe a nessuno, e tanto meno a sé stesso, le ciniche dichiarazioni di Ferète: anzi pronuncerebbe parole belle come quelle d’Admèto, forse anche piú belle: magari, spinto da queste o quelle ragioni, potrebbe rifiutare il magnanimo sacrificio della donna; ma qualora seguisse l’intimo, il vero impulso, si comporterebbe, sia pure con gran lusso di eroiche e magnanime proteste, come il vituperato sposo d’Alcesti. Mutato nomine de te fabula narratur. E forse la segreta coscienza di questa trista fraternità, radicata, e, perciò, in parte attenuata, nella tirannica potenza dell’istinto vitale, impediscono che il nostro cuore esprima uno spietato verdetto di condanna, anche se le nostre labbra pronunciano le piú indignate proteste.

Questa spietata aderenza alla realtà, che, insomma, affascina il nostro animo, s’imponeva inesorabile, come abbiamo osservato, allo spirito e all’arte d’Euripide. Da essa dipende un tocco che sembra offuscare un po’ anche l’immacolato eroismo d’Alcesti. Essa dice allo sposo: