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atto terzo.—sc. iii. 467

re, senza un testimonio. Io vi sono stato, — tutti ci siamo stati sovente, ma dalla torre o da’ suoi contenuti fu impossibile di trarre conclusioni assolute degli oggetti a cui tendessero i suoi studii. Il certo si è, che v’ha una camera dove nessuno entra; io darei il salario di tre anni avvenire per penetrare quei misteri.

Manuele. Sarebbe pericoloso; contentati di ciò che già sai.

Herman. Ah! Manuele! tu sei attempato e savio, e puoi dir molte cose; tu hai abitato il castello, — da quanti anni in qua?

Manuele. Prima della nascita del conte Manfredo ho servito suo padre, a cui egli in nulla somiglia.

Herman. Son molti i figliuoli come lui. Ma in che sta la differenza?

Manuele. Non parlo di fattezze o di forma, ma di mente e d’abitudini: il conte Sigismondo era altiero — ma allegro e franco — guerriero e banchettatore; non dimorava coi libri e colla solitudine, nè faceva della notte una tetra vigilia, ma un tempo festivo, più gajo del giorno; non errava per le rupi e lo foreste come un lupo, nè si deviava dagli uomini e dai loro diletti.

Herman. Maledetto il giorno d’oggi! quelli erano tempi giocondi! vorrei che tempi tali visitassero ancora le vecchie mura; queste stanno guardando come se da essi fossero state dimenticate.

Manuele. Bisogna che prima cambino di padrone. Oh! ci ho veduto delle strane cose in esse, Herman.

Herman. Vieni, ti prego; raccontamene alcuna per passare la nostra veglia: t’ho udito a parlare oscuramente d’un evento che successe qui intorno, presso questa torre.

Manuele. Era infatti una notte; mi ricordo ch’era crepuscolo, come ora, e una sera simile a questa; là quella nuvola rossa che riposa sulla cima dell’Eigher, vi riposava anche allora, — così simile come se fosse la stessa; il vento era fiacco e burrascoso, e le nevi della montagna cominciavano a brillare per l’ascendente luna; il conte Manfredo era come ora nella sua torre — non so in qual modo occupato, ma era con lui