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atto secondo.— sc. iii. 343


SCENA III.

GIOVANNI e detti.


Erodiade.                              Uomo di Dio, qui l’empia
Iezabel più non miri: è domo alfine
L’orgoglio mio. Deh, co’ tuoi preghi placa
Quel tremendo Signor, che ancor non amo,
Ma innanzi a cui l’altera fronte a forza
Nel mio spavento inchino. Al mio distacco
Da questo trono (ove fu giusto Erode
Prima che assiso fosse al fianco mio,
E dove al fianco mio parve tiranno),
Al mio distacco da ogni onor, dall’uomo
Che sommamente amai, che sommamente
Amo ed amerò sempre, un patto chieggo
Un patto sol! — Su questo trono.... appresso
Al mio Erode.... la rea donna non torni
Che lui non amò mai, che siccom’io
Non puote amarlo.
Anna.                                   (Oh sciagurata!)
Giovanni.                                                       Accieca
I tuoi giudizi l’ira, o traviato
Eppur nobile spirto. E tu quell’ira
Estinguer sappi; in Sefora un’egregia
Ravvisar sappi. Ah! leggi imporre a Dio
Può chi tornar vuol di giustizia al calle?
E poi tu dire: «Io scenderò da loco
Che non è mio, pur ch’altri non vi salga!
D’un ben mi spoglierò, purchè nol goda
Tal che da me spogliato andonne prima!»
Dio vuole intiere le virtù; Dio intieri
D’iniquità vuol gli abbandoni. E iniquo
Non fòra, o donna, il livor tuo, se — astretta
Da memoria di guerre e d’ingiustizie
Che fur tua colpa e t’atterriscon oggi,
Astretta tu a fuggir di questa reggia, —