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LIBRO DECIMOSESTO | 137 |
fare il Senatore e difendere chi lacera il principe, a dar sentenze di quel voglia si muti o corregga: dannando una cosa per volta, fora più sopportabile che tutte ora tacendo. Questa pace per tutto ’l Mondo, queste vittorie senza sangue gli dispiaciono? non si faccia contenta la prava ambizione di chi de’ beni pubblici si contrista: i Fori, i Teatri, i Tempj tiene per ispelonche; minaccia di volersene andare. Questi nostrì non gli paion decreti; non magistrati; non Roma, Roma. Crepi fuori di questa patria, di cui prima levò l’amore, e or ne fugge l’aspetto„.
XXIX. Marcello tali cose dicendo, si scagliava con voce, volto, occhi, minacce infocato: il Senato si vèdea soprappreso, non da quella maninconia, solita per li tanti pericoli, ma da più alto spavento e nuovo, del vedersi le mani e l’armi de’ soldati addosso. Rappresentavasi loro quella immagine veneranda di Trasea; compativasi del povero Elvidio dovesse morire innocente per lo suocero, come già Agrippino per la sola fortuna rea del padre, per crudeltà di Tiberio e di Montano, buon giovane, scacciato, per far mostra del suo ingegno, non per versi infami compósti.
XXX. Venne in campo Ostorio Sabino ad accusare Sorano prima dell’amicizia con Rubellio Plauto, e delle sedizioni nutrite nelle città dell’Asia, quando vi fu viceconsolo, per farsi grande, contro al ben pubblico. Peccati vecchi, a’ quali annestò questo nuovo, che Servilia sua figliuola avea dato danari a negromanti. Ella, come tenera di suo padre e per l’età semplicetta, gli avea domandati, non d’altro, che se resterebbe la casa in piede, Nerone placato il giudizio del Senato non rigido. Fu messa dentro in