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simile. Il nostro ambiente commerciale era miserabile ed ogni commerciante intraprendente vi veniva strangolato. Così toccava anche a lui.

Nella folle, disordinata sequela di affari che in quell’epoca passò per le nostre mani, ve ne fu uno che addirittura ce le bruciò. Non lo cercammo noi; fu l’affare che ci assaltò. Vi fummo cacciati dentro da un dalmata, certo Tacich, il cui padre aveva lavorato all’Argentina col padre di Guido. Venne dapprima a trovarci solo per avere da noi delle informazioni commerciali che noi seppimo procurargli.

Il Tacich era un bellissimo giovane, anzi troppo bello. Alto, forte, aveva una faccia olivastra in cui si fondevano in un’intonazione deliziosa l’azzurro fosco degli occhi, le lunghe sopracciglia e i brevi folti mustacchi bruni dai riflessi aurei. Insomma v’era in lui un tale intonato studio di colore che a me parve l’uomo nato per accompagnarsi a Carmen. Anche a lui parve così e venne a trovarci ogni giorno. La conversazione nel nostro ufficio durava ogni giorno per delle ore, ma non fu mai noiosa. I due uomini lottavano per conquistare la donna e, come tutti gli animali in amore, sfoggiavano le loro migliori qualità. Guido era un po’ trattenuto dal fatto che il dalmata veniva a trovarlo anche a casa sua e conosceva perciò Ada, ma niente poteva più danneggiarlo agli occhi di Carmen; io, che conoscevo tanto bene quegli occhi, lo seppi subito, mentre il Tacich lo apprese molto più tardi e, per avere più frequente il pretesto di vederla, comperò da noi anzichè dal fabbricante, varii vagoni di sapone che pagò per qualche percento più cari. Poi, sempre per amore, ci ficcò in quell’affare disastroso.

Suo padre aveva osservato che, costantemente, in cer-