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tratto di via da voci chiare e forti che gli ricorderebbero la vita.

Il vecchio mi disse che il moribondo era assistito da una suora. Pieno di rispetto mi fermai per qualche tempo dinanzi alla porta di quella camera nella quale il povero Copler col suo rantolo, dal ritmo tanto esatto, misurava il suo ultimo tempo. La sua respirazione rumorosa era composta da due suoni: esitante pareva quello prodotto dall’aria ch’egli ispirava, precipitoso quello che nasceva dall’aria espulsa. Fretta di morire? Una pausa seguiva ai due suoni ed io pensai che quando quella pausa si fosse allungata, allora si sarebbe iniziata la nuova vita.

Il vecchio voleva ch’io entrassi in quella stanza, ma io non volli. Troppi moribondi m’avevano guatato con un’espressione di rimprovero.

Non attesi che quella pausa s’allungasse e corsi da Carla. Bussai alla porta del suo studio ch’era chiusa a chiave, ma nessuno rispose. Impazientito presi la porta a calci e allora dietro di me si aperse la porta del quartiere. La voce della madre di Carla domandò:

— Ma chi è? — Poi la vecchia timorosa si sporse e, quando alla luce gialla che veniva dalla sua cucina m’ebbe riconosciuto, m’accorsi che la sua faccia si era coperta di un intenso rossore rilevato dalla nitida bianchezza dei suoi capelli. Carla non c’era, ed essa si profferse di andar a prendere la chiave dello studio per ricevermi in quella stanza ch’essa riteneva fosse la sola degna di ricevermi. Ma io le dissi di non scomodarsi, entrai nella sua cucina e sedetti senz’altro su una sedia di legno. Sul focolare, sotto ad una pentola, ardeva un modesto mucchio di carbone. Le dissi di non trascu-