Pagina:Svevo - La coscienza di Zeno, Milano 1930.djvu/262


259


Era carina, ma non poteva più conquistarmi. Trovai subito anch’io un atteggiamento che mi stava bene, quello del pedagogo, perchè mi dava anche la possibilità di sfogare quel rancore che c’era in fondo all’anima mia per la donna che non mi permetteva di parlare come avrei voluto di mia moglie. — Bisognava lavorare a questo mondo — le dissi — perchè, come ella già doveva saperlo, questo era un mondo cattivo dove solamente i validi reggevano. E se io ora dovessi morire? Che cosa avverrebbe di lei? — Avevo prospettata l’eventualità del mio abbandono in modo ch’essa proprio non poteva offendersene e infatti se ne commosse. Poi, con l’evidente intenzione di avvilirla, le dissi che con mia moglie bastava io manifestassi un desiderio per vederlo esaudito.

— Ebbene! disse lei rassegnata — manderemo a dire al maestro che ritorni! — Poi tentò di comunicarmi la sua antipatia per quel maestro. Ogni giorno doveva subire la compagnia di quel vecchione antipatico che le faceva ripetere per infinite volte gli stessi esercizi che non giovavano a nulla, proprio a nulla. Essa non ricordava di aver passato qualche bel giorno che quando il maestro si ammalava. Aveva anche sperato che morisse, ma essa non aveva fortuna.

Divenne infine addirittura violenta nella sua disperazione. Ripetè, aumentandolo, il suo lamento di non aver fortuna: era disgraziata, irreparabilmente disgraziata. Quando ricordava che m’aveva subito amato perchè le era sembrato che dal mio fare, dal mio dire, dai miei occhi, venisse una promessa di vita meno rigida, meno obbligata, meno noiosa, doveva piangere.

Così conobbi subito i suoi singhiozzi e mi seccaro-