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in cronica e probabilmente inguaribile. Ma egli credeva di star meglio e s’apprestava lietamente a trasferirsi subito, durante la primavera, in qualche luogo dal clima più dolce del nostro, dove s’aspettava di essere restituito alla piena salute. Gli fu fatale forse di essersi indugiato troppo nel rude luogo natìo.

Io considero la visita di quell’uomo tanto malato, ma lieto e sorridente, come molto nefasta per me; ma forse ho torto: essa non segna che una data nella mia vita, per la quale bisognava pur passare.

Il mio amico, Enrico Copler, si stupì ch’io nulla avessi saputo nè di lui nè della sua malattia di cui Giovanni doveva essere informato. Ma Giovanni, dacchè era malato anche lui, non aveva tempo per nessuno e non me ne aveva detto niente ad onta che ogni giorno di sole venisse nella mia villa per dormire qualche ora all’aria aperta.

Fra’ due malati si passò un pomeriggio lietissimo. Si parlò delle loro malattie, ciò che costituisce il massimo svago per un malato ed è una cosa non troppo triste per i sani che stanno a sentire. Ci fu solo un dissenso perchè Giovanni aveva bisogno dell’aria aperta che all’altro era proibita. Il dissenso si dileguò quando si levò un pò di vento che indusse anche Giovanni di restare con noi, nella piccola stanza calda.

Il Copler ci raccontò della sua malattia che non dava dolore ma toglieva la forza. Soltanto ora che stava meglio sapeva quanto fosse stato malato. Parlò delle medicine che gli erano state propinate e allora il mio interesse fu più vivo. Il suo dottore gli aveva consigliato fra altro un efficace sistema per procurargli un lungo sonno senza perciò avvelenarlo con veri sonniferi. Ma questa era la cosa di cui io avevo sopra tutto bisogno!