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Fra me e il vetturino c’era qualche evidente punto di contatto. Egli amava molto i vini dei Castelli e mi raccontò che ad ogni tratto gli si gonfiavano i piedi. Andava allora all’ospedale e, guarito, ne veniva congedato con molte raccomandazioni di rinunziare al vino. Egli allora faceva un proposito che diceva ferreo perchè, per materializzarlo, lo accompagnava con un nodo ch’egli allacciava alla catena di metallo del suo orologio. Ma quando io lo conobbi la sua catena gli pendeva sul panciotto, senza nodo. Lo invitai di venir a stare con me a Trieste. Gli descrissi il sapore del nostro vino, tanto differente da quello del suo, per assicurarlo dell’esito della drastica cura. Non ne volle sapere e rifiutò con una faccia in cui v’era già stampata la nostalgia.
Col cicerone mi legai perchè mi parve fosse superiore ai suoi colleghi. Non è difficile sapere di storia molto più di me, ma anche Augusta con la sua esattezza e col suo Baedeker verificò l’esattezza di molte sue indicazioni. Intanto era giovine e si andava di corsa traverso i viali seminati di statue.
Quando perdetti quei due amici, abbandonai Roma. Il vetturino avendo avuto da me tanto denaro, mi fece vedere come il vino gli attaccasse qualche volta anche la testa e ci gettò contro una solidissima antica costruzione Romana. Il cicerone poi si pensò un giorno di asserire che gli antichi Romani conoscevano benissimo la forza elettrica e ne facessero largo uso. Declamò anche dei versi latini che dovevano farne fede.
Ma mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire. Una cosa da niente: la paura d’invecchiare e sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia.