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128 PARTE SECONDA

Quella lettera, che non sarebbe stata scritta ove il maresciallo Bellegarde non avesse avuto notizia che la giunta non riconoscea l’esistenza della congiura, trasse di angustia i giudici, che mal sapevano porre d’accordo i dettami, alquanto sommessi, della loro coscienza e le ben note brame del governo. Dacchè l’imperatore obbligavasi a non ratificare la condanna che venisse da loro proferita contro gl’inquisiti; ogni scrupolo si dileguava. Se la forza della verità costringevali a dichiarare la non-esistenza della congiura, rimanea però tuttora il reato di non-rivelazione, del quale constava in realtà, e sopra del quale poteasi senza troppa vergogna fondare una condanna anche severa. Per le quali cose, dichiarò la giunta: 1.º non esservi stata congiura; 2.º essersi proferite parole contro il governo, e formati vaghi disegni, e non averne gli accusati ragguagliata la pubblica autorità. Condannò essa perciò gli accusati alla massima pena comminata pel reato di non-rivelazione, cioè a cinque anni di carcere duro. Ma non si dovea essa frapporre l’imperiale clemenza? Sì; e di fatti, tre anni dopo che gli accusati erano stati, all’uscire dall’ultima udienza della giunta, ricondotti nel carcere, la sentenza che li condannava a cinque anni di carcere duro, ritornò da Vienna a Mantova, colla commutazione della pena in diciotto mesi della detenzione medesima. Dietro le massime del vigente diritto, i tre anni trascorsi avrebbero dovuto essere riguardati come una più che sufficiente espiazione della pena commutata, ma S. M. volle altrimenti. La detenzione degli accusati fino a quel punto, era stata, in sua sentenza, non una pena, ma un mero provvedimento per la pubblica