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Ma ritornando alle cose di Roma, egli è a sapersi che il cuore del pontefice fu trafitto siffattamente dagli attentati indegni che nella sua Roma commettevansi, che coll’atto del 14 marzo da lui pubblicato, e che incominciava «Romani e quanti siete figli ec.,» dopo aver condannato gli eccessi in discorso, terminava con queste parole:

«Non vogliamo amareggiare il nostro spirito e il cuore di tutti i buoni colla previsione delle risoluzioni che saremmo costretti di prendere per non soffrire lo spettacolo dei flagelli coi quali suole Iddio richiamare i popoli dagli errori.»

Gravi risoluzioni pertanto venivano minacciate dal pontefice, ma quali esser potessero non ci è, nè ci fu dato di conoscere. Una scomunica forse, o un allontanamento da Roma; ma dall’una o dall’altra di queste determinazioni non potevano scaturire se non le più disastrose conseguenze: imperocchè nel primo caso tratta vasi di porre fuori del grembo della cattolica Chiesa i persecutori degli ordini religiosi e dei Gesuiti in ispecie, e qiielli non eran pochi; nel secondo poi, partendo il papa, partiva ancora il sovrano, e così Roma era sul punto di perdere il suo padre ed il suo principe nel tempo stesso.

Avremmo, e con noi avrebbe creduto ogni uomo sensato, che un simile linguaggio, un pregare sì commovente, ed un minacciare sì risoluto avesser dovuto colpire il cuore e la mente di coloro che a cosiffatti abbom ine voli attentati abbandonavansi.

Ma no: a nulla valsero. E pure chi pregava era quel desso, cui come capo della cattolica fede s* inchinano riverenti dugento milioni di cattolici sparsi per tutto il globo, e quindi come tale poteva dirsi ed era in fatti il padre della più numerosa famiglia ch’esista sulla terra. Era il sovrano di uno stato piccolo sì, ma il primo per antichità di possesso, e per ineccezionalità della sua origine. Era l’iniziatore delle romane larghezze, che poi divennero