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s’arresta qui, non è confinata nell’unità fisica dell’individuo: questo non è che il primo grado d’un’ascensione verso l’identificazione con un’unità più vasta. Un grado più alto è l’unificazione con i propri simili in una società: la quale non è più una fruizione egoistica dell’individuo e tuttavia non ne è un annullamento, ma è lo sviluppo di ciò che vi ha di più reale e profondo nell’individuo stesso. Quindi il conatus sese conservandi non s’arresta all’egoismo individuale, ma trova la sua più vera realizzazione in tutto lo svolgimento della vita razionale.

Poichè la ragione non esige nulla contro la natura, esige essa medesima che ciascuno ami sè e l’utile suo, cerchi il vero utile, desideri tutto ciò che conduce veramente l’uomo ad una maggior perfezione, insomma che ciascuno, per quanto è in lui, si sforzi di conservare l’essere suo. Il che è così necessariamente vero, come è vero che il tutto è maggiore delle parti. Inoltre, poichè la virtù non è altro che l’agire secondo le leggi della propria natura e nessuno cerca di conservare l’essere suo se non per le leggi della sua stessa natura, ne segue in primo luogo che il fondamento della virtù è lo stesso sforzo di conservare l’essere proprio e la felicità consiste nel poter conservare l’essere proprio; ne segue in secondo luogo che la virtù deve essere desiderata per sè, nè vi è altra cosa più eccellente e più utile per amor della quale essa debba venir desiderata. (Et., IV, 18, scol.).

La differenza tra la vera virtù e l’impotenza sta quindi in questo: che la vera virtù non è altro se non il vivere secondo la guida della ragione; e l’impotenza consiste nel lasciarci condurre dalle cose che sono fuori di noi e nel lasciarci da esse determinare a far ciò che esige, non la nostra stessa natura in sè considerata, ma la costituzione comune delle cose esterne. (Et., IV, 37, scol.).

Il secondo principio è quello espresso nella prop. 19.

Prop. 19. Ciascuno per legge di sua natura necessariamente appetisce o respinge ciò che giudica bene o male.