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IV. — La possibilità della liberazione.


1) Che cosa ci assicura allora, possiamo qui chiederci, che l’uomo non debba soccombere definitivamente in questo conflitto e così errare senza speranza nel pelago delle passioni? Spinoza qui mostra come l’uomo debba necessariamente per un processo naturale progredire verso la perfezione, cioè verso l’unità con Dio. Egli parte da due principî fondamentali. Il primo è quello espresso nella prop. 18.

Prop. 18. Il desiderio (cupiditas) che nasce dalla gioia a condizioni pari è più forte che il desiderio che nasce dalla tristezza.

Sebbene l’uomo nella sua limitazione sia una potenza trascurabile di fronte alle potenze della natura, tuttavia ha la certezza d’un progresso continuo. Egli non può isolarsi dal commercio con le cose esterne: ora fra queste ve ne sono molte che per la loro natura affine tendono a comporsi in unità con noi, ad accrescere la nostra potenza e la nostra gioia. Le cose contrarie invece non sono vere forze ostili che detraggano effettivamente alla potenza nostra, a ciò che di reale è stato conquistato nell’ascensione verso la perfezione (V. parte terza, III, 2); esse non fanno che arrestarci, richiamarci al senso della nostra impotenza. Quindi la potenza nostra non è una quantità variabile che sia accresciuta dalla gioia e diminuita dalla tristezza: la gioia è un reale accrescimento e si misura dalla nostra potenza, più la potenza della cosa che ne è causa: la tristezza si misura invece dalla nostra sola potenza e non è una reale diminuzione.

Nello scolio alla prop. 18 è anticipato il contenuto delle proposizioni che seguono. Il fine dell’uomo è la esplicazione della propria essenza e potenza: perciò il primo grado di questa è la conservazione del proprio essere e la ricerca del bene individuale: Spinoza sembra qui parlare come un utilitario. Ma la perfezione non