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Io spiavo quell’arrivo. Ad ogni grande scampanellata correvo io a tirare la molla, poi, spenzolandomi sulla rampa della scala, domandavo, come era l’uso:
— Chi è?
E che gioia quando alla mia domanda, fatta con voce argentina, una voce grossa e rozza rispondeva arditamente:
— Il battello!
Allora correvo giù saltando, cercavo di scoprire quello che contenevano le ceste, ne aspiravo i profumi. Qualche volta, sull’orlo di una cesta di cavoli, di broccoli, o di fagiuoli, sotto al panno che la copriva era stato posato un mazzolino di violette, di gerani, o di garofani, riccamente guernito di erbe odorose. Era mio, e io me ne impossessavo con trasporto. Quei fiori erano le lettere de’ miei amici; vi sentivo dentro le loro ingenue risate, i giocosi latrati del mio cane, il dolce rezzo de’ miei boschi e l’arcana gioia della libertà.
Era così viva quella impressione, le mie sensazioni erano così acute che, oggi ancora, se chiudo gli occhi e mi concentro un momento, risento il profumo di quei fiori, e nel mio cuore si ridesta come un’eco lontana di quello spasimo delizioso.
Nelle ore di minor sorveglianza, quando tutti erano occupati e mi dimenticavano, o mi credevano nella mia camera a far i compiti, io mi rifugiavo volentieri in una vasta soffitta.
Là trovavo molti oggetti curiosi che mi divertivano: mobili rotti di ogni genere; ritratti a olio rosicchiati dai topi; uno specialmente notevole per la ricchezza del costume — il ritratto della madre del marchese Giorgio, a cui egli non