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A questo punto, di solito, io mi addormentavo.

Ma quella sera Cesare era venuto a inginocchiarsi vicino a me; ed io lo vedevo pregare con fervore, le mani giunte, la fronte piegata sull’anello che gli avevo dato. Tale devozione mi fece effetto; provai un vago senso di tenerezza, un desiderio nuovo di pregare come lui, di essere devota anch’io. Mi ci misi con tale ardore, che le due vecchie, stupite, pensarono che io facessi per chiasso, e alla fin fine m’ebbi la stessa strapazzata di quando dormivo o facevo la cattiva.

La mattina dopo Cesare non si presentò al servizio alla solita ora.

Capitò invece un poco più tardi il colono.

Al ragazzo gli s’era gonfiato un dito durante la notte e spasimava, causa un anelluccio che lui non voleva assolutamente gli si rompesse.

— C’entrerà quella birbona! — esclamò la marchesa, fissandomi coi suoi occhi duri.

Io scappai.

Quando il colono ritornò da suo figlio, lo trovò rassegnato al taglio del famoso anello. Io ero là, tutta compresa dell’importanza della mia persona, infondendo coraggio e buone speranze al paziente.

Ma quando lo vidi col dito gonfio e l’anello tagliato mi ricordai le parole che gli avevo dette, e mi parve tanto buffo, che me ne andai ridendo seguita da Fiume.

La mia allegria durò poco. Avevo appena rimesso piede in casa, che la cameriera mi venne incontro, e col suo fare dispettoso mi disse:

— Stasera si torna in città, la signorina deve essere alla scuola domani.