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duto prima che il suo povero bocciuolo vi germogliasse. Nata per amare, il marchese Giorgio l’aveva condannata alla solitudine mandandole a male tutte le occasioni di pigliar marito, per non metter fuori il salario mai pagato e che in capo a vent’anni di servizio doveva costituire un capitaletto. La povera creatura se ne lagnava qualche volta a bassa voce, miagolando come una gattina maltrattata; ma davanti al vecchio non osava neppur fiatare. In complesso non aveva ancora perduta la speranza di trovare un galantuomo che la sposasse per lei sola, rinunziando a que’ pochi soldi. Gliel’aveva messa in testa il marchese, ripetendole ad ogni nuova occasione: — Vuole i tuoi danari?... Vuol dire che non ti ama! È un birbante!... E intanto nella casa tutti ridevano delle speranze romantiche di Dorotea. I servitori la tormentavano con burle grossolane che divertivano i padroni, e la cameriera — una prepotentaccia, favorita dal vecchio — non le risparmiava le mortificazioni.

Inconsciamente, ma appunto per questo, certo, noi altri ragazzi le volevamo tanto bene.

Quel giorno ella stava cucendo al mio corredo di collegio.

— Dunque, tu vai proprio in collegio? — esclamavano le care cuginette mettendosi a piangere. Cesare sospirava.

E Fiume capiva benissimo che si trattava di una cosa tremenda.

Quand’io gli dicevo: — Non mi vedrai più — alzava la testa inquieto e mi guardava malinconicamente con gli occhi grandi, velati dalla vecchiaia, che sembravano pieni di dolore.

— Dispiace anche a me! — diceva Dorotea — davvero mi dispiace! Ma, santo Dio! è colpa sua; dicono ch’è tanto cattiva!...