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66 nell’ingranaggio


Erano suonate le nove all’orologio della chiesetta.

A momenti i tre signori invitati si sarebbero mossi per trovarsi pronti al passaggio del piroscafo, che doveva ricondurli ad Arona.

Lea sarebbe venuta su per andare a letto, la signora si sarebbe ritirata nelle sue camere e il banchiere nel suo studio.

Ebbene, ella voleva approfittare di questa combinazione: discendere, bussare all’uscio dello studio, entrare, raccontare quello che aveva sentito e licenziarsi della sua carica di istitutrice. O che ci voleva?

Un po’ di coraggio; niente altro.

Poi era finita. Sarebbe tornata nella sua pevera casetta, a piè del bastione, con zia Caterina, che era una semplice e rozza donna incapace di fingere.

V.

Lea, stanca della sua giornata piena di movimento e di chiasso, dormiva profondamente.

Tutto taceva nella casa; la servitù era andata a dormire; i padroni si erano ritirati.

Gilda chiuse l’uscio che metteva nella camera della bambina, e riapri la finestra. S’affacciò un momento. La notte era buja e silenziosa ma calma, forse troppo: il cielo coperto da folte nuvole, pareva chiuso in quell’istante di raccoglimento, che precede la tempesta. Il lago somigliava ad uno stagno, nero ed immobile. La fontana del giardino col suo zampilletto, così allegro di giorno, produceva in quell’ora un rumore lamentoso e sinistro.