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nell’ingranaggio 63


qualcuno aveva parlato della sua possibile partenza; e che la piccina si era trovata presente a tali discorsi. Ma quando? Perchè?

Non osava interrogare.

Si sentiva nell’anima uno sgomento invincibile, e i primi, acuti morsi dell’odio.

Ora il pranzo era terminato: era sera: una bella sera tepida, che permetteva di tenere aperto. I commensali riuniti nel salotto discorrevano allegramente, come se quella casa fosse stata il più caro asilo della pace e della felicità.

Gilda sentiva il rumore delle voci, le gaje risate che salivano fino a lei. Il Banchiere raccontava alcuni episodii comici della chiusura della Esposizione Nazionale. L’ingegner Santini e l’Avvocatino facevano gara di spirito, e la signora Edvige li incoraggiava con dei «bravo» squillanti che attraversavano l’aria.

Di tratto in tratto qualcuno usciva sulla terrazza a fumare un sigaro, e Gilda sentiva ancora meglio gli scoppi dell’allegria scaldata dai liquori, qualche brano di frase scherzosa o satirica o a doppio senso.

Aveva spento il lume perchè non la vedessero, e s’era messa dietro le persiane socchiuse, raccapricciando nei brividi di un freddo nervoso che le faceva battere i denti.

Sentiva Lea fare il chiasso col pappagallo, già dimentica dell’intenerimento che aveva provato poche ore prima.

A un certo punto, il padron di casa, il professore ed il Santini, sedettero al tavolino dello scacchiere, ben noto a Gilda.

Giovanni amava questo giuoco e ci aveva acquistato una grande abilità.