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intimi e alcuni parenti di suo marito che la malattia di lui aveva ricondotti. Per fortuna, questi ultimi erano pochi e abitualmente gli affari li tenevano lontani. Un secondo cugino specialmente aveva la facoltà di esasperarla. Un Pianosi anche lui e banchiere, a Pavia; arrivava a Milano tutti i mercoledì, e, ora che avevano fatto pace, come diceva, non mancava di andare a colazione da sua cugina, col pretesto d’informarsi della salute di Giovanni. Era un uomo sull’invecchiare, magro, striminzito, giallo in faccia, come se avesse avuto l’itterizia: i suoi capelli, anticamente di un biondo sporco, prendevano ora nell’imbiancare certi toni grigi verdastri, di una malinconia infinita. Egli si stupiva, tutte le volte che arrivava, del lusso dell’appartamento; ripeteva immancabilmente le stesse parole di biasimo e rifaceva i medesimi discorsi sulla economia domestica e sullo sperpero dei capitali, con un tono di voce burbero, interrompendosi ogni tanto per raschiarsi la gola e sputacchiare sul tappeto. Poi, quando si accorgeva di avere fatto una piccola pozzanghera, si scusava press’a poco così:

— Mi dispiace, ma è colpa vostra! Perchè tenete di quest’impicci? A casa mia si cammina sulle pietre, tutto al più un poco di stuoia, l’inverno: e non siamo mai malati, noi!

Si vantava di non avere raffreddori in casa, nè lui, nè sua moglie, nè le sue figliuole, tutto perchè scaldavano pochissimo la stufa, loro; e tanto per criticare anche quello che non conosceva, immaginava il fuoco d’inferno che dovevano fare i suoi cari cugini con le abitudini russe che la signora non poteva mancare di avere conservate.