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Ogni libro d’arte, che ha un valore, prova qualche cosa; proverà o la vita o la morte, o il bene o il male, o un particolare aspetto di queste cose, o il dubbio, lo scetticismo, l’impossibilità di provare alcuna legge costante nella versatile complessità della vita.

Ma un libro, e sia pure un romanzo, onde non emerge un’impressione netta e coerente — ossia una conclusione — sarà un centone di descrizioni più o meno abili e di fattarelli di cronaca più o meno piccanti — non sarà nè romanzo nè libro.

E a me, leggendo «Nell’Ingranaggio» — questa storia piana e penosa del povero amore dell’Istitutrice, amore sano ed intero e legittimo innanzi alla natura ed ai fatti, che si scioglie logicamente nell’abbandono e nel suicidio, spintovi dalle energie congiurate della legalità e dell’ipocrisia, che piglia nome decoro — a me s’imponeva un ravvicinamento che parrà per lo meno curioso ai lettori superficiali: il ravvicinamento di questo romanzo senza tesi e tutto concreto, con quel volume tutto tesi e disquisizioni astratte, meraviglioso per impeto di logica distruggitrice malgrado la leggerezza con cui maltratta taluni argomenti, che il Dumolard pubblicò non ha guari: le Menzogne convenzionali del Max Nordan.

(Dall’Italia).

Filippo Turati.


Bruno Sperani, col suo Nell’Ingranaggio, viene a mettersi in prima fila nel plotone, anche troppo sottile, de’ romanzieri italiani.

Ugo Sogliani.