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però che gli ambasciadori nostri che veniano a trattarla, non parveno lor tanto soficienti e degni a sì gran fatto. Ora non c’è cotale difetto e storpio; ché io Annibale son quegli che pace addomando: il quale non la chiederei s’io non credessi che utile fosse; e per questa medesima utilità ch’io la cheggio, la conserverò e atterrò. E sì come io feci che della guerra la quale io incominciai, veruno non si penté in fino a tanto che agli Dii dispiacque, cosi m’ingegnerò che neuno si penterà della pace per me acquistata e fatta.


Scipione imperadore di Roma, alle parole per Annibale dette, in questa maniera rispuose, e disse:


Io non era ingannato, ma tenea per certo, o Annibale, ch’e’ Cartaginesi aveano speranza del tuo avvenimento, e aspettàvallo: però turbarono la triegua e la fede, i patti e la speranza data della pace. E tu medesimo nel tuo parlare niente il nascondi, ma palesemente il manifesti in ciò, che de’ patti e delle condizioni della pace posti da me di sopra, sottrai ogni cosa, salvo quelle cose che già sono in nostra podestà e signoria: onde niente ci concedi se non quello che noi ci tegnamo. Ora, come tu hai sollicita cura ch’e’ tuoi cittadini sieno per te alquanto alleggeriti della gravezza della guerra, o vero de’ patti oggi dati da me; cosi s’appartiene a me, e debbomi ingegnare, che sottraendo eglino de’ patti e delle condizioni della pace e’ quali eglino accettarono,1 riportino guiderdone e premio delle disleeltadi2 e della loro perfidia. E non siete degni che noi vi facciamo più que’ medesimi patti che in prima vi facciavamo, però che infedelmente rotti e perturbati gli avete. La domanda vostra chiede

  1. Le stampe: accetteranno. Ma vi ripugnano e la ragion delle cose, e il testo ove leggesi: quæ tunc pepigerunt
  2. Vedi la nota 2 a pag. 391.