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XXXII

(La visita all’ergastolano).

Santo Stefano, 22 agosto 1855.

Da quanto tempo non piglio queste memorie! Me n’ero proprio dimenticato, come mi sono dimenticato di tante cose. Quante cose vi avrei scritto in quattro mesi da che non le tocco, se avessi voluto e potuto scrivere in esse tutto ciò che ho sentito!

Da un mese son ritornato nell’ergastolo, nell’orribile pandemonio. Silvio ed io abbiam dovuto lasciar la quiete di quella stanza, la veduta della campagna, e tornare in un camerino, dove siamo cinque politici, Silvio, Gennarino, De Simone, Calafiore, ed io. Come è brutto l’ergastolo quando vi si ritorna! Il camerino, che era uno di quelli che appartenevano all’antico ospedale, ha il numero 25, ha una finestrella che guarda un pezzo di Ventotene, proprio quello dove sorge il tristo camposanto, e lo spazio di mare che è tra l’isola di Ponza, e Monte Circello fino a Terracina.

Mia moglie nel mese di aprile chiese permesso e passaporto per venire a vedermi dopo tre anni: le fu dato il passaporto il primo giorno di giugno: ella era per venire, ma la Giulia cadde ammalata. Io aspettava. Il ventotto giugno vedo una barca, la guardo col cannocchiale, vi scorgo a poppa una donna ritta in piedi: i forzati mi dicono di avere udita la voce dei marinai, che gridando annunziano venire la famiglia del signor Settembrini. Io vedo, io sento ad un palpito del cuore che quella ritta in piedi era la mia Giulietta. Accompagno la barca nel porto di Ventotene, aspetto piú d’un’ora il battello, il quale finalmente esce dal porto. Io scendo, e mi trovo tra le braccia della mia diletta figliuola Giulietta, e poi della cara e sventurata compagna mia. Oh che momento fu