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48 parte prima - capitolo vi


grosso cane barbone chiamato Fedele, che stava col muso su le ginocchia di don Domenico, che gli gettava in aria qualche boccone, e il cane lo chiappava. Dopo la cena che fu spanta, profusa, e condita di bravi brindisi in versi e in prosa, si passò in un’altra stanza dove era il presepe tutto splendente di ori, di argenti, e di ceri accesi che abbagliavano: era una ricchezza antica della famiglia che don Domenico aveva accresciuta, e la lasciava in anteparte al suo Ciccillo, il quale giá se ne teneva padrone e lo mostrava a tutti come roba sua. Intanto essendo giá vicina la mezzanotte, si disse da molte voci: «la processione, la processione», e ci toccò metterci in ordine. Innanzi andava una coppia di zampognari che sonavano come se volessero scoppiare; poi a due a due un cavaliere ed una dama coi torchi accesi in mano, ultimo Ciccillo con una cotta indosso portava in una vaga cestellina il bambino: a fianco a lui il cappellano rosso in viso come un peperone apriva una gran bocca ed intonava il Te Deum, a cui tutti rispondevano. Mentre in processione si scendeva le scale, si girava lentamente nel vasto cortile, e si usciva anche fuori la via, alcuni giovanotti sparavano fuochi d’artifizio, e da tutte le finestre vicine si cacciavano i lumi e si rispondeva al canto. Passata la mezzanotte, cominciava il giorno di Natale secondo i canoni, e si può dir messa: onde il prete si vestí dei paramenti e disse una messa nella cappella che era nella stessa stanza del presepe; ma il poveruomo avendo la lingua grossa e gli occhi piccini rappallottolava gli oremus, e donna Mariantonia con un frequente muovere di sopracciglia se ne mostrava scandalezzata. Bisognava dirne tre, ed egli non poteva finirne una: se ne cavò a la meglio, e le altre due se le udí chi volle quando fu levato il sole: io ne ebbi abbastanza. Finita adunque la messa, ciascuno andò a casa a dormire; e l’altro dí, secondo l’usanza, si tornò al pranzo che fu anche sfoggiato e lunghissimo.

Un giorno si andò ad una scampagnata sul Vomero, ed io celiai piú dell’usato con la letteratina che aveva una parlantina speditissima. Ma come entrammo nella villa Ricciardi,