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uno sguardo al mondo 39


nelle contese di famiglia, nel commercio, nell’istruzione, nell’amministrazione, metteva le mani in tutto, e tutto rimescolava con insolenza gendarmesca. Operoso e destro, non aveva alcuna fede, fu carbonaro, poi, ribenedetto, carezzava i liberali per corromperli, lisciava le donne per usarne anche come spie. Nicola Santangelo ministro dell’interno era un ometto gonfio di molta vanitá, pratico di faccende, amante di anticaglie delle quali formò un ricco e prezioso museo, era in voce di ladro, ma non lasciò alcuna ricchezza. Il re sapeva questa voce e vi scherzava: un dí salendo una scala, e venendogli dietro il Santangelo con altri ministri, egli ponendosi le mani dietro l’abito disse: «Signori miei, guardiamoci le tasche». Il marchese d’Andrea, ministro delle finanze, per la persona, il parlare, il sentire era un misto tra il pulcinella ed il prete. Ogni mattina per salute dell’anima sua vestivasi di sacri paramenti, e celebrava in casa sua una messa secca, cioè senza consacrazione. Risecava su tutte le spese, non pagava nessuno, o al piú tardi, e se uno andava a chiedergli il suo, ei rispondeva con buffonerie, e poi gli cacciava in bocca un pezzetto di cioccolatte: «Va, non andare in collera, addolcisciti la bocca». Ogni anno portava i risparmi al re, che gli voleva gran bene, e lo chiamava papá, e in buona coscienza si pigliava il sacchetto. Questi tre ministri rappresentavano l’arbitrio, la prosunzione, l’avarizia di Ferdinando: ma un altro ne aveva le chiavi del cuore, e le volgeva e rivolgeva a sua posta, il suo confessore, monsignore Celestino Coele, dell’ordine di Sant’Alfonso, che tutto poté, tutto vendé con furba improntitudine di frate.

Questi era il re, questi i suoi ministri, che io vedevo lontani da me in alto, e ne sentivo parlare da quelli che mi stavano intorno.