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racconto di mia moglie 267


Guardo il mio Raffaello, lo vedo giá grande di quattordici anni, ed incomincia ad essere uomo: egli sente fortemente le scelleraggini che tu hai ricevute dagli uomini e spesso ne freme: egli mi guarda, mi vede pallida e scarna, e mi dice: «O povera mamma mia, come vi hanno ridotta i dolori!» La Giulia mi consola e dice: «Mamma, un giorno di questi all’improvviso ci vedremo papá innanzi: non dubitate: voi farete una buona vita». E cosí, o mio Luigi, io passo i miei giorni fra timori e speranze.

Tutto il passato mi sembra una favola avvenuta ad altre persone, poiché mi sembra impossibile che sia avvenuto a me. Io non ho cuore di ricordarmi il passato, ma pure voglio fare forza a me stessa: ed Iddio mi dará forza di scrivere i miei dolori, come me la diede per soffrirli. E poi non siamo noi compagni di ogni dolore? Non mi hai tu scritto tutto perché sai che io ho la forza di leggerlo? Sí, Luigi mio, il cuore della tua Gigia è sempre lo stesso: se si è consumato il mio corpo, in questo io non ho colpa; ma l’anima mia sará sempre salda fino alla morte. La tua povera Gigia non ha avuto altro nel mondo che un’anima instancabile nel soffrire: e pare che la natura mi abbia fatto cosí perché io era destinata compagna di un uomo che dovea soffrire tutta la sua vita. Se dunque è cosí, leggi questa mia povera scrittura. Ma che dico? Chi sa quando ci rivedremo, chi sa quando tu potrai leggere questa lettera lunga lunga che io ti scrivo per consolarmi coi miei stessi dolori. Io non ho altra mira che di narrarti quello che ho sofferto, e di farlo tenere a mente ai nostri figliuoli.

Il sabato 1° febbraio, dopo che ti lasciai, scendendo le scale con la signora Agresti, io l’esortai a venirsene in mia casa, come quella che è piú vicina alla Vicaria, per avere il commodo di tornare subito ad ascoltare la decisione della vostra e nostra sorte, perché noi credevamo di poterla ascoltare. La signora acconsentí e venne meco. Quali fossero i discorsi che noi povere disgraziate facevamo, lascio a te l’immaginarli. Un silenzio per tutto il paese, un lutto generale, squallidi volti, una mestizia indicibile. Quelli che ci conoscevano,