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IV

Entrata nel mondo.

Mio padre non volle allogarmi in casa di nessun parente, ma a consiglio del suo vecchio amico Gaspare Giglio, che aveva due nipoti Leandro Giglio e Raffaele Capuano di Cirò nell’istituto di don Gaetano Cioffi, messe anche me in quell’istituto. Eccomi dunque in Napoli, e tra gli studenti. Gli studenti erano divisi in due parti avverse e nemiche: i napoletani, pochi, attillati, superbi, ignoranti, molli, che studiavano cosí un poco per avere un impiego; ed i provinciali molti, salvatichi come orsacchi, generalmente boriosi, rissosi, ed i piú poveri piú diligenti a lo studio. Questi provinciali a poco a poco si ripuliscono, rimbiondiscono, diventano zerbini, frequentano i passeggi, occhieggiano le donne, ed in capo ad alcuni anni se ne ritornano a casa, dove portano un paio di vestiti nuovi, una pergamena di dottore, un viso sbiancato dall’aria d’una grande citta, e qualche vizio che si chiama civiltá. Io quantunque nato in Napoli, pure essendo stato in provincia sin da fanciullo, stetti fra i provinciali: e i due nipoti di don Gaspare miei compagni, che erano calabresi, mi fecero conoscere parecchi calabresi: sicché io passavo per uno dei loro, e per non parere un intruso, io rammentavo spesso mio nonno che era di Bollita, paese che da prima apparteneva a la Calabria e poi a la Basilicata. A me piaceva la loro compagnia perché essi avevano quello che a me mancava e voleva acquistare, pronti, arditi, parlavano facilmente: in mezzo a loro io non era un asino, ma non mi sapevo far largo, rimanevo sempre indietro, parlavo poco, avevo paura di dire sciocchezze, credevo che bisogna parlare come un libro, guardavo gli altri e talvolta ne ridevo, e come potevo scoccavo qualche parola che mi faceva rispettare e voler bene.