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192 | scritti di renato serra |
saliva; àloe, si discio|glièva....; provate a scandire, battendo gli accenti fino alla fine. Tutto si svolge con un ritmo sonoro, ampio e schietto; ma la sua forma senza mutamento è più un’abitudine dell’eloquio, che un’espressione dell’animo.
Ciò suona un po’ falso. Perfino quell’ultima battuta, così bene distinta e suggellata, ha un suono troppo perfetto, troppo metallico; perfino la caduta delle perle, così rotonda e abbondevole, è fatta vana; nell’onda dei suoni le gocciole che bagnavano la faccia del rustico non serbano altro valore che di un bel dattilo, e restano sole e disciolte da ogni cosa umana quelle perle scaramazze, con un suono di vetro.
In questa dispersione di ogni nostro interesse, che non sia di suoni e di ozio, sola una cosa trionfa; la felicità del dicitore. Si sente che in essa è il principio e la fine e tutto.
D’Annunzio ha trascritto il Boccaccio molto freddamente, per esercizio di bravura. Egli sapeva di poter far meglio: e migliorando punto per punto il suo modello, e correggendo, e colorando, e insistendo senza pietà, tutto il travaglio suo alla fine è tornato quasi in niente. Poichè egli non si è curato mai di uscire da quella disposizione di consapevolezza vanitosa: se n’è goduto e l’ha ripetuta senza mutare, cullato e beato dalla musica vana.
Chi ha osato nominare il Maupassant e quel suo santo amore delle cose vive?
D’Annunzio potrà avere anche tutti i doni di lui. Ma nessuno può tollerare la vanità di costui quando se ne abbella, non già alle cose intendendo e al loro sapore sacro, ma a sè solo e all’onore che di sè sta per rendere all’universo.