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zio al pranzo di suo padre. Pranzo povero e scarso, che il vecchio e il giovane divoravano, con una fame da lupo, mentre Mosè studiava la grandezza delle fette di pane che si tagliava Giacobbe. La scena era curiosa. Quel vecchio, stanco, affranto, sempre avvolto nella sua palandrana, col bisunto cappello sul capo, con le mani nodose e rossastre pel freddo, masticava rumorosamente, con uno scricchiolìo di vecchie mascelle, e beveva dei bicchieri di acqua e vino, colmi. Il giovane, pallido, dissanguato, tutto gramo nella sua giacchetta, mangiava in silenzio, ma con una voracità spaventosa, senza levar gli occhi dal piatto. Rosa andava e veniva dalla cucinetta, portando la poca roba. All’altro capo della tavola Rachele, le mani incrociate sulla tavola, assisteva, muta, pensosa.

In Rachele Cabib brillava tutta l’alta beltà muliebre giudaica. Così certo, nei tempi patriarcali, le sue antenate dovevano essere belle, nate al sole della Mesopotamia, erranti per le valli fiorite e arrestantisi alle fresche fontane: così doveva essere Rebecca, la nobile fanciulla: così Erodiade, colei che fatalmente strappò al Tetrarca la testa di Giovanni Battista. Rachele era alta e snella della persona e nelle sue forme erano una grazia e una seduzione infinite: ogni sua movenza aveva un senso armonico che completava la purezza delle sue linee. Era pallida e un po’ bruna, ma bruno di avorio, caldo e vivido, carnagione ammirabile, dove il sangue della giovinezza e della salute scorreva, vigoroso e fine, insieme. Nerissimi i capelli e profondamente neri gli occhi, tagliati a mandorla, socchiusi sotto le palpebre d’avorio dalle lunghe ciglia ricurve: e negli occhi una espressione misteriosa di pensiero, un segreto impenetrabile che destava una curiosità sempre inappagata. Il volto era ovale, in una linea molle e carezzevole; la boc-