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36 la mano tagliata.

scarsi, in quel giorno, che, veramente, non si poteva comprendere che cosa Mosè Cabib registrasse in quel volume. Non aveva venduto che una piccola cornice dorata del secolo scorso per cinque lire e un cofanetto di legno, tutto tarlato e sgangherato, per otto lire, più due o tre bazzecole, da due o tre lire. Il grosso avventore, il grosso colpo era mancato: ma non si sa neppure che cosa avrebbe potuto comperare lì dentro, fra quelle robe vecchie, sconquassate, sporche, quasi ributtanti di sporcizia.

Mosè Cabib finì di scrivere. Aspettò che l’inchiostro si asciugasse e richiuse il volumone legato in cuoio tutto bistorto: poi lo gittò in un tavolino, dal cassetto socchiuso. Lasciava così il suo libro di cassa: ma era scritto in ebraico. Mosè Cabib sapeva scrivere bene la sua lingua. Poi, cavò un portafogli immenso, sdrucito, legato con uno spago e vi ripose le quindici o venti lire della giornata, senza che gli occhi maliziosi di Giacobbe giungessero a distinguere che cosa vi fosse, ancora, dentro. E disse:

— Andiamo. —

Ma, a questo, un fischio dolce e lungo si udì dalla cantonata, verso ponte Sant’Angelo: una espressione d’inquietudine si dipinse sul volto del vecchio, ed egli si sollevò gli occhiali sulla fronte come per meglio ascoltare. Il fischio si ripetette. Allora egli si levò e disse a Giacobbe:

— Ora torno: aspettami qui.

— Va bene.

— Non ti muovere, comprendi?

— Sì. —

Uscendo di bottega, Mosè Cabib si voltò due o tre volte, a vedere se il suo commesso avesse obbedito: non voleva essere spiato. Rassicurato, si avanzò verso il ponte; lo attraversò per metà, col suo passo strascicato, ma cauto.